Intervista a Luca Ronconi

Pubblicato il 31-08-2009

di andrea

Fahrenheit: la memoria, la lingua, i maestri
Intervista a Luca Ronconi
di Andrea Porcheddu
Partiamo dalla prima, immediata suggestione che si può trarre da un testo come “Fahrenheit 451”. L’impressione che si ha è che ci si trovi di fronte al racconto del “futuro com’era”: ovvero che prevalga l’aspetto “profetico”, apocalittico, futuribile…
Ed è divertente, poi, quando si arriva davvero a quel “futuro” verificare cosa succede: più o meno si ha la stessa sensazione con il 1984 di Orwell o con Odissea nello spazio di Kubrick: il 2001 è già passato da sei anni, e per quanto il mondo cambi rapidamente, non cambia mai abbastanza rapidamente….

Quando la letteratura parla del futuro c’è sempre un’aria da “apocalisse”. Sono pochissime le opere che presentano il futuro come un’utopia positiva: mi viene in mente solo La cimice di Majakovskij, peraltro poi sbugiardato dalla storia. Quindi, potremmo dire che ad essere profeti di sventura non si sbaglia mai…
D’altra parte, mi pare opportuno ricordare che questa commedia non è la riduzione del romanzo, ma è un testo teatrale scritto dallo stesso Bradbury proprio per la scena. E nel confronto con il palcoscenico appare maggiormente chiaro che c’è una differenza tra il “futuro raccontato” e il “futuro rappresentato”: raccontarlo si può, rappresentarlo no.
La rappresentazione è fatta di segni espliciti, visibili, tangibili e ci sono segni che non possiamo possedere...

Come rappresentare questo tipo di “futuro” in scena?
Innanzitutto, contravvenendo alle didascalie dell’autore.

Che, effettivamente, suonano piuttosto datate nella prospettiva di un allestimento…
Perché immaginano un futuro ipertecnologico. Mentre invece così non è. Ad esempio, man mano che ci inoltriamo in quel “futuro”, che diventa nostro presente, nonostante tutta la tecnologia ci accorgiamo che non siamo in grado di smaltire tutti i rifiuti che si producono: quindi, a cinquanta anni di distanza dal romanzo, non ci troviamo affatto in un mondo più asettico.
E dunque qual è il futuro di Bradbury? Il testo non parla di problemi ecologici, non parla dell’assetto economico né di quello religioso: tutti argomenti che oggi, se guardiamo al futuro, ci interessano enormemente.
Cosa resta? Per l’allestimento sembra preferibile concentrare la nostra attenzione sul tema “principale” e non tentare di abbracciare un’idea generica di futuro. Dobbiamo circoscrivere l’opera al tema che tratta: la distruzione del libro e di ciò che il libro porta. Ed è un tema che tutti conosciamo: si tratta di capire se affrontarlo dal punto di vista ideologico o metaforico. Ma se dobbiamo parlare di futuro, credo sia meglio parlarne in termini di metafora. Altrimenti, se dovessimo fare ideologia, non possiamo non constatare che avremmo potuto ambientare la storia in tante epoche passate: epoche che hanno realmente visto quanto racconta Fahrenheit. E non ci sarebbe bisogno, quindi, di tirare in ballo il futuro. Dunque preferiamo un “se succedesse” e non un “quando succederà”.
Infine, se si dovesse dare un connotato ideologico troppo dichiarato all’opera, per alcune parti del testo si rischierebbe di “scivolare” in una specie di moralismo - che peraltro non fa parte di nessun futuro…

Dunque “Fahrenheit” come metafora?
Come metafora, o come sollecitazione, o ancora monito alla “necessità della memoria”. In questo senso non è più necessario pensare al “futuro”. La perdita di memoria è qualcosa che, da quando il romanzo ha visto la luce ad oggi, ha subito una accelerazione esponenziale. Quindi non si tratta di trovare una “attualità” della commedia, che ha cinquanta anni e a tratti, drammaturgicamente parlando, li dimostra. Né si tratta di immaginare scenari futuri, dal momento che ormai siamo dentro quegli stessi scenari.
Questo perché lo spunto tuttora più accettabile non è tanto se sia bene o male il rogo dei libri, né cosa significhi ideologicamente, né infine che tipo di società contraddistingue, ma semmai altro. Chiedersi il mondo dov’è, come è l’informazione, affrontare il problema della non-conoscenza. Insomma, il tema della utilità della non-perdita di memoria mi sembra qualcosa tutto sommato ovvio, ma sensato, di cui parlare.

Eppure qui abbiamo a che fare con un testo, poi con un romanzo, infine con un film e, addirittura, con un “titolo” che sono entrati nell’immaginario collettivo: una semplificazione o una complicazione?
Il romanzo è, per me, un ricordo vago: volutamente, non l’ho riletto prima di affrontare il testo teatrale. Certo, il titolo, il film sono qualcosa che richiamano subito la storia. Il film si fa ricordare per alcune sequenze. E devo dire che il testo teatrale ci guadagna se pensato come “adattamento” del romanzo. Come dire? Sembra un po’ l’ombra del romanzo. L’ombra di una persona sembrerebbe inconsistente se non si potesse vedere subito la persona accanto. Così è per questo testo: mantiene una sua efficacia, ma anche grazie al fatto che è “sotto tutela” del romanzo. E il romanzo mantiene un’efficacia proprio perché sotto tutela della memoria collettiva che - beato lui - si può permettere di avere.

A questo punto una domanda è d’obbligo: lei che libro brucerebbe?
Io? Non so, ma sì, un libro lo brucerei. Un libro di teatro: sarebbe stato meglio se fosse bruciato… Ma non dirò mai quale!

Allora volgiamo al positivo la questione: quale libro salverebbe dalle fiamme? Quale libro serve per salvare la memoria?
Una cosa che si evince dalla commedia è che un libro non letto è già bruciato. Una biblioteca sigillata, che nessuno frequenta, è come se fosse bruciata…
Difficile dire cosa è per me la letteratura, cosa rappresenta il libro. Per vari motivi ho iniziato a leggere molto presto. Motivi contingenti - il coprifuoco, tanti libri a casa, il fatto di dover andare a scuola molto presto… - hanno fatto sì che mi confrontassi giovanissimo con i libri, ma non sono arrivato a leggere dalla letteratura infantile. Aprivo i libri e leggevo, magari capendo poco: ma leggevo tutto. E, da allora, la lettura è per me una consuetudine. Poi, dal momento che lettura e frequentazione del teatro sono andati assieme, hanno marciato contemporaneamente in me, sin da ragazzo ho sempre immaginato la rappresentazione scenica di quel che leggevo. Certo, la mia formazione è stata sui grandi classici che circolavano per casa. Non necessariamente adatti all’adolescenza: ho preso anche degli schiaffoni, proprio perché leggevo libri “proibiti”…

Andrea Porcheddu
(dal programma di sala dello spettacolo Fahrenheit 451)

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok