IRAQ: Senza parole

Pubblicato il 31-08-2009

di sandro


Violenza e guerra sembrano mettere a tacere sentimenti e speranza. Questo articolo ci porta in Iraq, a conoscere storie di persone devastate dalla guerra…

...Guido Cravero


Senza parole. È lo stato d’animo con cui si ritorna da Baghdad di questi tempi. Sembrerà banale, dozzinale come una chiacchiera sul tempo, ma è l’unica risposta sensata che l’onestà interiore ci può suggerire. Non un silenzio attonito o un mutismo ebete. Un astenersi dalla parola, come da tutto quello che distoglie l’attenzione, per cercare di raggiungere più agilmente una verità che abbiamo perduto. Perché un giorno dovremo spiegare, capire, quale corto circuito mentale abbia portato il genere umano, ancora una volta, all’accettazione dell’idea della guerra come soluzione. Distruggere per costruire, come in certe ripetitive e schizofreniche attività dei malati di mente. Come il cane che gira su se stesso per mordersi la coda.
Alì ha quattro anni. I genitori lo hanno portato dai nonni, nei sobborghi di Falluja, per paura che in città qualcosa di brutto potesse accadergli. Stava giocando con la terra che gli operai avevano appena scavato. Forse costruiva dighe e montagne, case e castelli: correndo dietro alla fantasia si era dimenticato degli spari e dei boati che di notte lo facevano urlare. Ora, in silenzio, gli occhi sgranati, guarda la sua gamba e il suo braccio che non ci sono più: qualcuno ha confuso i lavori con una trincea e lui è diventato un danno collaterale, un errore nelle statistiche.
Hussein di anni ne ha sette e una leucemia. Gli italiani della Croce Rossa lo hanno mandato a Firenze, dove è stato curato, coccolato, viziato. Forse non è guarito, dovrà tornare ancora in Italia, ma la speranza è entrata con lui nella casa di Baghdad dove lo aspettavano i fratelli. Poi un razzo, spedito non si sa da chi, ha distrutto il laboratorio del papà che ora, appoggiato al muro sgretolato, in silenzio si guarda le mani.
Frank è un sergente di venticinque anni. Era andato in Iraq pensando a suo nonno, ebreo polacco, privato di tutto in un campo di sterminio; convinto che abbattere un tiranno omicida fosse anche un suo dovere, una cambiale da pagare alla storia. Ritornerà a casa accompagnato dalla fama dei suoi compagni che si sono perduti, diventati torturatori come quelli che erano andati a combattere. Nelle sue notti i centinaia di compagni caduti non avranno più pace, non più onore: ingranaggi perduti di una macchina che pensavano di guidare e li ha stritolati.
È la logica della guerra. Tutti contro tutti. Come quando da ragazzini si faceva baraonda nei campetti di calcio. Regolarmente finiva in rissa. È quello che sta succedendo, ma qui non si tratta di finire con un occhio nero un noioso pomeriggio di domenica. Qui ci sono colpe da attribuire, analisi da effettuare, esperti di strategia da consultare, dibattiti televisivi da sviscerare, tesi da confermare. Bare da rimpatriare.
È arrivato il momento di fermarsi, quietare lo starnazzare di esperti e presunti tali, tacitare le chiacchiere da bar che identificano responsabili e trovano soluzioni come se si trattasse della formazione della nazionale, ammutolire rancorosi maestri di pensiero a servizio di tesi preconfezionate. E finalmente fermarsi a pensare.
Gialal al-Din Rumi, nato nel 1207 in quello che ora è Afghanistan, grande poeta sufi diceva: “Di là dalle idee, di là da ciò che è giusto e ingiusto, c’è un luogo. Incontriamoci là”. In silenzio.
Guido Cravero
(Vignetta di P. Rovero)
da Nuovo Progetto giugno/luglio 2004






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