ITALIA: Povertà in crescita

Pubblicato il 31-08-2009

di Elena Goisis


La fame di casa nostra non fa meno male di quella del Terzo Mondo. Anzi. In un ambiente nel quale il benessere è la normalità, chi non ce la fa si sente facilmente un fallito, perde la stima di sé, la speranza di risollevarsi. Ecco perché il recupero chiede tempi stretti, prima che l’emarginazione diventi la normalità per chi è più sfortunato.

di Elena Goisis e Simone Bernardi

 Ho conosciuto Nives presso un centro di accoglienza notturna. Minuta, lo sguardo discreto di chi non vuol disturbare. La casa non ce l’ha più. È stata sfrattata e un nuovo affitto - con tutto ciò che comporta: cauzione, tre mensilità anticipate, registrazione del contratto - non è alla portata della sua scarsa pensione. La casa popolare, si sa, è una chimera. E dormire in una pensione per un mese intero costa. Così Nives, 69 anni, passa 15 giorni in pensione e 15 per strada. E scopre un popolo, che come lei passa le giornate sulle panchine, dorme alla Stazione, sui pianerottoli delle case o nel Pronto Soccorso degli Ospedali.
Lei, premiata dattilografa – “520 battute al minuto” ricorda con orgoglio – si ritrova ad aver bisogno di tutto. “Non basta la forza della volontà a farti star bene – mi spiega – perché dormendo fuori con pioggia e vento e mangiando quel che capita, anche la salute poco alla volta finisce male.”.

Un giorno, dopo aver ritirato la pensione, viene scippata. Quel mese la vita diventa ancora più dura: “Avevo freddo, tanto male alla schiena, mi rifugiavo per ore in chiesa, senza mangiare…”. Finché una sera finisce all’Ospedale, si risveglia con l’ossigeno e la flebo: “disidratazione” è la diagnosi. In centro Torino, la Torino delle Olimpiadi 2006.
Viene dimessa e riprende il suo pellegrinaggio nella povertà. La dignità non l’abbandona, usa il verde pubblico come toilette “ma solo di sera”, portando con sé sacchetti di plastica e giornali. Quante persone hanno incontrato Nives in quei mesi? Finalmente una di loro la guarda con occhi che vogliono vedere. Capisce le sue condizioni, l’accompagna in un posto dove può essere aiutata.

A restare invisibili sono ancora in tanti, oggi, nella nostra Italia. Molte volte perché non abbiamo… gli occhiali giusti, altre volte perché la loro dignità nasconde l’estremo bisogno. Penso al signor Piergiorgio, 59 anni, una rispettabile carriera come cuoco: il matrimonio va male, cade in un esaurimento, perde il lavoro, un’ernia e poi un aneurisma “in stand-by” completano il quadro. Non riesce più a pagare l’affitto né le bollette. Va in un centro di solidarietà a cercare aiuto per un lavoro, si muove lentamente a causa dell’estrema debolezza da denutrizione, sotto la giacca ha la casacca del pigiama, sdrucita.

Chi lo accoglie se ne accorge, gli chiede se mangia regolarmente e gli offre un pacco viveri in attesa di un lavoro. Il signor Piergiorgio ringrazia gentilmente ma rifiuta: “Mangerò quando potrò mantenermi con il mio lavoro”.

Storie di fame e dignità, ma non tutte sono così. C’è un panettiere nel mio quartiere che ogni sera butta nel cassonetto dell’immondizia l’invenduto della giornata. Poco dopo anziani dagli occhi pesti e la barba lunga si avvicinano e raccolgono gli avanzi. La fame è più forte dell’odore d’immondizia.

Nel frattempo mense e supermercati fanno i conti con i costi di smaltimento di rifiuti organici che solo poche ore prima erano classificati come generi alimentari in scadenza. Proprio di questo problema si era occupata la legge n.155 del 25.06.2003, sullo snellimento e semplificazione della distribuzione delle merci per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Traendone ispirazione, nel 2003 l’Assessorato alle politiche sociali del Comune di Roma fa un’inchiesta sugli scarti alimentari. Si stima che a Roma sia possibile recuperare ogni anno circa 8.500 t di alimenti: oltre 13.000 pasti al giorno, per un valore complessivo di ca. 35 milioni di euro (come se ognuno di noi buttasse via ogni giorno alimenti “buoni” per circa 12 euro). Parte così nel dicembre 2003 ''Roma non Spreca - Piattaforma Alimentare della solidarietà”, progetto che consente di recuperare e reimmettere nel circuito della solidarietà ingenti quantità di prodotti alimentari ogni giorno, grazie ad un innovativo sistema di integrazione tra le aree della donazione, distribuzione, utenze e rete informativa. Circa 20 t di alimenti sono stati redistribuiti nel circuito della solidarietà romana durante il primo anno di attivazione del progetto.

Un gesto di rispetto per chi ha fame e di solidarietà che non esonera la società dall’affrontare le cause della “fame italiana”, in aumento rispetto allo scorso anno: secondo l’ultimo rapporto Istat sono oggi sotto la soglia della povertà l’11,7 % delle famiglie italiane (in particolare quelle con tre o più figli), oltre il 40% nel Sud Italia. Un peggioramento che colpisce soprattutto chi si avvicina all’età anziana: il 38% delle persone tra i 55 e i 64 anni nel Mezzogiorno hanno dovuto ridurre nel 2004 le spese per l’alimentazione. Il raddoppio perverso dei prezzi dopo l’entrata in vigore dell’euro non ha giovato, ma è semplicistico attribuire la responsabilità alla moneta comune.

Alla ricerca delle cause, il mondo della solidarietà si è rivelato un osservatorio privilegiato, dal quale emerge un panorama di vulnerabilità diffusa, con un crinale sempre più ristretto tra chi vive e chi stenta a sopravvivere.
Passaggi inevitabili della vita, come l’ingresso nell’età delle pensione, diventano cruciali se gli anni di anzianità lavorativa sono pochi e la pensione considerevolmente inferiore rispetto all’ultima retribuzione.

In altri casi è il decesso o la separazione dal familiare più “socialmente abile” a precipitare la persona, oltre che nel vuoto affettivo, in un vuoto organizzativo dal quale è difficile uscire senza aiuto esterno. Perdita di salute e perdita di reddito sono frequentemente collegati, soprattutto in questi anni nei quali il lavoro fisso è ormai privilegio di pochi. C’è poi chi perde il lavoro in un’età troppo elevata per trovarne un altro, troppo bassa per aver diritto alla pensione. Un altro punto dolente è l’elevato numero di persone con problemi psicologici, non riconosciuti come tali o come “meritevoli di aiuto” ma sufficientemente influenti da rendere la persona incapace di badare a se stessa e alla propria famiglia.

Non così facile è capire dove e come chiedere aiuto: questo vale per i rifugiati politici, spesso “scaricati” in una stazione o aeroporto italiani senza alcun riferimento e conoscenza della lingua, ma anche per tanti nostri concittadini, che faticano ad orientarsi nelle “categorie” per le quali la legge italiana prevede l’intervento dei servizi sociali o altri benefici. Per molti, addirittura, esiste il bisogno ma non esistono “i requisiti di legge”: perché non rientrano nella fascia d’età tutelabile, perché non hanno un’invalidità… sufficientemente elevata, perché non risiedono nel territorio (anzi, la situazione peggiora proprio quando non risiedono in nessun territorio)…
Purtroppo dove lo Stato non dà risposte spesso neppure la comunità (condominio, parrocchia, quartiere) sa darne. Eppure, dove il singolo pur sensibile non può arrivare da solo, potrebbe arrivare proprio una comunità che si facesse carico come tale della persona in difficoltà.

Elena Goisis e Simone Bernardi
da Nuovo Progetto novembre 2005

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