La chiesa che amo (1/2)

Pubblicato il 14-09-2011

di Ernesto Olivero

di Ernesto Olivero - Portare amore per il mondo, continuare ad attingere al cuore di Cristo, lasciarsi commuovere da chi oggi è Gesù: l’affamato, l’ignudo, l’assetato, … Una Chiesa credibile e coerente.


L’abitudine, la legge al posto dello Spirito hanno ucciso tante vocazioni nella Chiesa, spento tanti sogni. Anche noi, chiamati dal Signore, se non lo amiamo con tutto il cuore e non amiamo ogni fratello con amore paterno e materno, possiamo entrare in questa abitudine: avere semplicemente un’etichetta e non più il cuore. Il futuro attende una Chiesa-comunità che sappia ritrovare la forza della profezia vivendo le beatitudini. Antonio Tempera, La MaddalenaUna Chiesa il cui volto più noto torni ad essere l’amore.


Da chi andremo?

Per molti oggi la Chiesa è sinonimo di severità, di noia, di divieti. Sarebbe bello invece che la gente la vedesse con le braccia aperte, come Gesù l’ha pensata. Quando Gesù dice: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28) dà un volto preciso alla Sua Chiesa. Se un uomo vive un momento di angoscia senza fine, da chi può andare? Se un odio improvviso è pronto a far diventare la sua vita una follia, una mano chi gliela può dare? Se è divorziato, che futuro può avere nella Chiesa? Se un ragazzo lotta con la sua omosessualità, se il suo corpo ribolle di sensazioni, chi lo può aiutare a districarsi? Se un ex carcerato assassino dopo aver scontato la pena continua a non dormire di notte per il rimorso, chi lo acquieta? Se mille giovani sono attratti dall’autodistruzione, chi è capace di guardarli negli occhi con tenerezza e ascoltarli? Se l’uomo o la donna di Chiesa hanno il bastone in mano, il giudizio sulle labbra, la durezza nel cuore, sono severi e basta, questa gente da chi andrà? Magari da una cartomante, da un guru, in qualche setta, ma non più verso la Chiesa. Non possiamo ignorarlo, né accontentarci di essere quelli che stanno dentro.

Cerchiamo invece di convertirci al Vangelo, cerchiamo di fare nostra una Chiesa che abbia il cuore grande del Padre, la compassione di Gesù, soprattutto verso i persi, l’amore dello Spirito, l’accoglienza di Maria. Non è utopia, è Parola di Dio che ci interpella e ci fa desiderare una Chiesa capace di non chiudere mai la porta a nessuno. Una Chiesa che sente come un fuoco incontenibile il desiderio di portare la parola della consolazione ad ogni uomo, ad ogni donna. Una Chiesa il cui cuore arde dal desiderio di far sapere a tutti che Gesù è il ponte definitivo tra l’umanità e Dio. Una Chiesa aperta notte e giorno, pronta ad accogliere l’angosciato, a dar speranza allo sfiduciato, ad accompagnare lo smarrito verso il senso della vita.

La mia speranza è che le nostre comunità cristiane tornino ad essere segno evangelico del dividere il pane con l’affamato, del dare da bere all’assetato, Carceratodel visitare il carcerato, del vestire chi è nudo, dell’accogliere lo straniero, dell’offrire anche solo un bicchiere d’acqua ad uno dei piccoli del Regno nel nome di Gesù, o dell’aver compassione del ferito lungo il ciglio della strada. È urgente che torniamo a declinare così il comando dell’amore, il cuore della nostra fede. L’apostolo Giovanni ci ricorda: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20). E questa Parola ci inchioda nella concretezza delle scelte quotidiane: senza amore per il fratello non può esserci fede nel Signore Gesù.


“Se anche il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si salerà?” (Lc 14,34)

Ci vuole il coraggio della verità. Noi cristiani abbiamo smesso di essere segno, siamo diventati i cristiani del buon senso, del quieto vivere; un po’ alla volta, siamo riusciti a conciliare il Vangelo con la mentalità del mondo. Che il mondo attorno a noi tornasse ad essere pagano ne è stata la logica conseguenza. Oggi il Vangelo è diventato scandalo prima di tutto per noi battezzati, inconciliabile con la nostra vita, con le nostre esigenze, con i nostri desideri. Continuiamo a girare attorno al problema con indagini, convegni, e non arriviamo a sciogliere il nodo del “venite e vedrete” (Gv 1,39). Spesso oggi, come singoli e come comunità cristiane, non siamo testimoni credibili dell’amore reciproco e della condivisione.

La mentalità del nostro tempo fatto di benessere, di prevalenza dell’io sul noi, di immagine, di autosufficienza… ci è entrata talmente dentro da soffocare la mentalità biblica dei “piccoli e dei poveri di Yahvè”. Se non torniamo a sentirci infinitamente poveri, se non ritroviamo la strada dell’umiltà di chi sa di aver bisogno in tutto e sempre di Dio e dell’altro - il fratello -, non c’è più incontro con Dio, non c’è più dialogo tra la creatura e il suo Creatore, non c’è più comunione tra credenti, non c’è più comunità. E la Chiesa non dice più Gesù alla gente.

I discepoli di Gesù, i primi cristiani, con tutte le loro sofferenze, con tutte le loro difficoltà hanno portato la loro testimonianza decisiva nel mondo pagano che li circondava, perché sono stati credibili, e quindi autorevoli. L’annuncio era la loro vita, davvero intrisa di Gesù. Il poter dare testimonianza dell’incontro con Gesù era la loro forza, le sue Parole e il suo Corpo erano il pane condiviso tra loro. La loro gioia era la gioia di una vita povera ma donata, perché davvero “vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Avevano aperto gli occhi alla semplicità dell’amore, che scioglie ogni nodo, ogni invidia, ogni tensione e crea comunione. E sapevano dove attingere, perché l’acqua pura che portavano non si esaurisse mai.
Loro avevano creduto alle parole di Gesù: “In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi” (Gv 14,12).


Essere comunità profetica

Ora questa sfida è affidata a noi, al nostro tempo. Non sono un sognatore e non considero questo tipo di vita un’utopia. Bambino povero del Terzo Mondo che beve da una fogliaCredo davvero che l’umanità, se non impara a rispettare le risorse e a condividerle in modo equo, a scegliere una vita più sobria, a restituire intelligenza, capacità, conoscenze a chi ha avuto meno, implode. E oggi di quest’implosione cominciamo a vedere i segni. A forza di guardare solo a noi stessi, abbiamo perso una visione ampia del mondo, dei rapporti, del futuro. Abbiamo perso la speranza.

Oggi a noi Chiesa è affidata la missione profetica di testimoniare una nuova umanità possibile, improntata sull’amore. Ma non bastano pochi uomini di buona volontà. C’è bisogno di intere comunità, c’è bisogno che la Chiesa tutta si converta a questa missione e lo faccia subito! Abbiamo fatto molto, abbiamo realizzato una fitta rete di associazioni di volontariato cui abbiamo affidato le povertà emergenti del nostro tempo, il Terzo Mondo... I più sensibili si sono impegnati nella carità, a nome di tutti. Ma non basta. Il Vangelo è per tutti; il cristiano, qualunque cristiano, ha nel Vangelo il suo codice di riferimento. E tutti sono chiamati a lasciarsi interrogare dall’esempio del samaritano che sulle strade del mondo scende dal cavallo delle sue certezze e si prende cura del ferito. Ma per scaldare il cuore agli altri dobbiamo conservarlo caldo noi.

C’è bisogno che anzitutto noi Chiesa ci rievangelizziamo per dare al mondo la buona notizia. Allora le campane delle nostre chiese non saranno folclore o disturbo della quiete, ma memoria di una buona notizia da vivere ogni giorno, di un amore che non ha ferie né segreteria telefonica e può fluire da ogni cristiano. Sarà una conversione che porterà molti di noi ad interrogarci sulle strutture di peccato, a volte opera anche di uomini e donne cristiani. Una conversione che, per essere comunitaria, dovrà toccare cardinali e industriali, generali e operai, intellettuali e casalinghe, giovani e anziani, portando nella loro quotidianità quell’amore di cui il mondo ha tanto bisogno.
Uno dei segni che il paganesimo ci ha presi è che anche nei nostri ambienti la gente attribuisce a Dio tanti mali frutto invece dell’avidità, dell’incuria, del disinteresse di molti di noi. Le nostre comunità devono tornare a parlar cristiano, ad “amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5). Il Signore, ne sono convinto, ci sta domandando con forza di tornare ad essere cristiani a tempo pieno, 24 ore su 24.

Ernesto Olivero
da NP 2009, n. 6

 
 

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