La chiesa che amo (2/2)

Pubblicato il 14-09-2011

di Michele

di Ernesto Olivero - La Pentecoste, origine e vita della Chiesa, ci sprona a non dimenticare mai di avere nel nostro dna le beatitudini.


Il futuro freme

Mi piacerebbe che noi cristiani del terzo millennio trovassimo il modo di far rivivere le pagine dell’autore anonimo del II secolo che scrive la Lettera a Diogneto. Pablo Picasso, Il girotondo della paceI cristiani vi sono descritti come brava gente, si vogliono bene, rispettano le leggi, vivono nella loro patria, ma come forestieri, dimorano sulla terra ma hanno la cittadinanza in cielo; non gettano i neonati, vivono del loro lavoro, non si distinguono per un abito particolare ma sono riconoscibili per la bontà; quando sono maltrattati, ingiuriati e condannati benedicono. Sono l’anima del mondo.

Sarebbe bello che, da oggi, di noi cristiani si potesse dire: sono donne e uomini che si vogliono bene tra di loro, che non parlano mai male di nessuno; che quando sanno di un problema, di una povertà si fanno in quattro senza attendersi un grazie; sono quelli che non fanno manifestazioni contro qualcuno ma portano in piazza la loro speranza, per dire che la luce è alla portata di tutti; che non condannano nessuno, perché Gesù non condanna. Ama, continuamente.
Non dobbiamo avere paura di guardare lontano, di interrogarci: cosa ne sarà della Chiesa in Italia fra 10 o 20 anni? Esisterà ancora o altre religioni ci avranno superato, e saremo un gregge talmente piccolo da non avere più un futuro? Se siamo obiettivi e non falsi sognatori ci dovremmo spaventare. Ma l’oggi è ancora nelle nostre mani. Se entriamo nella logica di Gesù non avremo paura del futuro, ed il futuro fremerà di impazienza nell’attesa della Chiesa di Gesù.


Chiesa delle beatitudini

Mi piacerebbe che la gente riconoscesse in noi laici, religiosi, sacerdoti la Chiesa delle beatitudini, una Chiesa che vive con serenità e con forza il “Beati voi…” (Mt 5,1-11; Lc 6,20-26).
Ripeto spesso e con molta convinzione un’affermazione di Michele Do: “La Chiesa non è una struttura da aggiornare, ma una presenza, quella di Cristo, a cui convertirsi”. È una presenza a volte difficile da riconoscere, faticosa da vivere, al limite dell’impossibile, ma è reale. Il cuore del cristianesimo è la conversione alla mentalità delle beatitudini e la forza della Chiesa è la logica di Dio: l’umiltà, cioè, di chi come Gesù si mette a servizio, disposto a perdere tutto per guadagnare anche uno solo alla fede, per portare vita. La Chiesa può crescere fino ad abbracciare l’intera umanità, ma converte solo se torna a vivere la gioia di essere come Gesù, se torna a vivere le beatitudini.

Se non ci sono questi due passaggi - passione e compassione - noi diventiamo dei rami secchi. Saremo luce che converte il mondo se ognuno di noi diventerà tempio di Dio, in cui il sorriso, la commozione non sono un’apparenza ma la sostanza, che fascia, consiglia, soccorre, tace, prega in continuazione, per essere totalmente di Dio e totalmente a servizio dei fratelli. Oggi ognuno di noi è chiamato a diventare cattedrale che rende culto al suo Dio, lo ama perdutamente nell’uomo, nel creato, nella storia, in tutto ciò che lo circonda.
Gesù ha voluto che la Chiesa fosse il suo Corpo, che i cristiani fossero le sue membra. Il corpo di un uomo funziona bene se la gamba fa la gamba, se la testa fa la testa. Quando c’è confusione di ruoli, quando prevale l’invidia, il non fare, il quieto vivere, la Chiesa non è più Chiesa: è un ammasso di istituzioni che stanno insieme per paura, per ipocrisia.

Spero in una Chiesa aperta ad accogliere i carismi che il Signore dona ancora oggi, carismi intorno ai quali nascono nuovi movimenti e comunità, servizi nuovi, modi nuovi di vivere la missione; una Chiesa che non si limita ad esercitare il suo potere, ma lo trasforma in un potere che sa servire.
Tutti dovrebbero concorrere a far bello il Corpo che è la Chiesa, anziché dividerlo: chi ha il carisma dell’amore gioisce per chi ha quello della speranza e insieme sussultano per chi ha il dono di chinarsi verso i più poveri. Comunità, gruppi, parrocchie e singoli cristiani, stanno sulla barca di Pietro per essere punto di riferimento della salvezza, della speranza, della contentezza.
Pasquale Cianci, Gesù buon Pastore Abbiamo bisogno di Pastori che ci aiutino a vivere l’unità non addormentando le idee, ma stimolando tutti a vivere la preghiera, la condivisione, la sobrietà; incoraggiando tutti a vivere i vari carismi senza distaccarsi dalla Chiesa.

La Chiesa se è veramente innamorata del suo Dio ridiventa pura, abbandona le incrostazioni, torna ad essere missionaria, portatrice dell’annuncio che Dio ama l’uomo. Torna a parlare all’uomo con l’unico linguaggio comprensibile a tutti e con gesti pieni di significato, di trascendenza, di amore a Dio. Torna a parlare ai giovani soprattutto, i più poveri tra i poveri, con la schiena piegata dai non valori che hanno respirato. Torna ad essere fatta di uomini e donne di pace.


Operatori di pace

Una Chiesa veramente innamorata del suo Dio porta la pace, che è il desiderio di ogni uomo. Pace è sapere che la propria famiglia può avere il necessario ogni giorno. Pace è vivere in armonia con Dio creatore e con gli uomini, fratelli tra loro. Pace è non essere costretti ad aver paura, è poter vivere con pienezza i nostri doni, è non temere la morte. Ma la pace non abita questo tempo, perché troppi uomini badano principalmente ai propri interessi, ad ogni costo.
Spero in una Chiesa che vive la profezia di questa pace, educandoci quotidianamente a rapporti di pace: “Beati i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, beati gli operatori di pace” (Mt 5,5-9).
Ho radicata nel cuore la profezia di Isaia (2,2-4): un tempo in cui gli uomini cambieranno la loro mentalità di guerra in mentalità di pace, un tempo in cui la parola servizio prenderà il posto della parola interesse, un tempo in cui, anziché mio, diremo nostro.

La pace è il primo dono di Gesù Risorto ai suoi, turbati e confusi dalla sua morte (Lc 24,36; Gv 20,19). Con la stessa autorità di Gesù, la Chiesa osa dire: “Pace a voi”. Pronunciando queste parole, i cristiani s’impegnano a riportare vita dove c’è morte. Se nessuno accumulerà più ricchezze per sé soltanto, se nessuno vorrà dominare con forza sugli altri, il nostro piccolo gregge tornerà ad essere, dopo duemila anni di cristianesimo, la profezia del tempo nel quale Tom Bower, Regno di Dioil lupo e l’agnello pascoleranno insieme, le armi saranno trasformate in strumenti di lavoro e nessuno imparerà più l’arte della guerra.


La centesima pecora

Alcuni anni fa, nel 1998, dom Luciano Mendes de Almeida, vescovo brasiliano e amico caro, scrisse sul mio diario alcune righe per Adriano Sofri che di tanto in tanto incontravo nel carcere di Pisa: “Caro Adriano, mi hai chiesto che cosa farà il pastore quando novantanove sue pecore si saranno smarrite e solo una pecorella, la centesima, resterà fedelmente accanto a Lui. Da quando ho letto la tua domanda mi sono permesso di meditare, cercando cosa rispondere. La situazione non è così nuova, anzi. Alla venuta di Gesù in questo mondo noi tutti eravamo smarriti, senza alimento, senza orizzonte e senza pastore. Così san Matteo presenta Gesù alla fine del cap. 9: Egli vedeva la moltitudine come delle pecore senza pastore, smarrite, attratte da tanti valori svuotati che rimpiccioliscono il cuore e lasciano l’anima smarrita.

Cosa ha fatto Gesù? Ha offerto la Sua vita per noi. E poi ha chiamato degli uomini e delle donne che - insieme a Lui e a nome suo - andassero dietro le pecore, per farle entrare insieme nella gioia della vita vera. Penso così che Gesù davanti alle 99 pecore smarrite si sarebbe messo a camminare entrando nelle città e nei paesi, predicando e annunziando il Regno di Dio, ma avrebbe anche invitato la pecorella - la centesima - rimasta fedele a lasciare il riposo, l’acqua, l’erba e a camminare al suo fianco, per sentieri ardui, sulle rocce e sulla sabbia delle regioni aride, per cercare le novantanove smarrite.

Così è nata la Chiesa
. È la centesima pecora, piccola, povera, sproporzionatamente incapace, ma chiamata a camminare nella sua fragilità a lato del Pastore per far vedere qual è il posto delle pecore, cioè insieme al Pastore buono, dove trovano affetto, alimento, protezione.
La Chiesa, pecorella già nel recinto, non è contenta di restare sola, così il Pastore cammina per le strade perché le altre abbiano la stessa grazia, la stessa gioia.
La missione del Pastore non è stare nel recinto, ma dare vita alle pecore e la pecora che conosce e ama il Pastore impara a far battere il suo cuore allo stesso ritmo e a lasciarsi attirare dallo stesso ardore di andare dietro alle altre perché all’indomani, stiano tutte - allora sì - nel recinto di pace”.

Ernesto Olivero
da NP 2009, n. 6

 
 

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