La parola, non belle parole

Pubblicato il 10-08-2011

di Aldo Maria Valli

Da tempo non esiste più un partito unico dei cattolici, ma continua ad essere all’ordine del giorno l’agire politico dei cristiani che intendono mantenere vivo il patto di fedeltà al Vangelo e all’uomo.

  di Aldo Maria Valli

 
 
Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha fatto un sogno e l’ha illustrato ai suoi confratelli vescovi nell’ultimo consiglio permanente della Cei: una generazione nuova di italiani e di cattolici capaci di sentire la cosa pubblica come “importante e alta” e in grado di spendersi per questo ideale, credenti che avvertono “la responsabilità davanti a Dio come decisiva per l’agire politico”. Un bel sogno, non c’è che dire. E che tra i pastori questa ne-cessità di una nuova classe politica cristiana sia particolarmente avvertita lo dimostra anche il discorso tenuto dall’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, davanti agli amministratori pubblici della metropoli lombarda in occasione del tradizionale incontro di inizio anno.
 
“La vera questione del posto dei cristiani in politica - ha detto il cardinale - non riguarda quale schieramento seguire o quale alleanza preferire, ma è quella di scegliere Cristo, ogni giorno, con una vita di fede autentica e, di conseguenza, con decisioni e comportamenti coerenti al Vangelo”. Sotto il titolo “Cristiani in politica, tutti responsabili di tutti”, Tettamanzi ha svolto una riflessione la cui portata va al di là dell’ambito ambrosiano per coinvolgere l’intero Paese. In politica, ha sottolineato, “il riferimento all’essere cattolici divide anziché unire”, e il pastore avverte tutta la fatica, il disagio e la sofferenza di cristiani che “non poche volte si contrappongono tra loro su ciò che li dovrebbe unire”.
 
Ma proprio per questo occorre una risposta decisa. “Il posto dei cattolici è la stessa comunità cristiana”. Devono starci dentro, devono viverla. Non basta dirsi cristiani. Occorre esserlo. Anche perché è proprio stando dentro la comunità che il politico può avere quel legame forte con il popolo senza il quale non è possibile occuparsi validamente della cosa pubblica. Ma c’è un secondo posto dei cattolici in politica, ed è la povertà. Proprio così: il posto nel quale i cristiani possono e devono costruire una casa comune è “il servizio ai più poveri”, intendendo con poveri tutti quelli che soffrono per forme di emarginazione, esclusione e solitudine.
 
In politica il cristiano che voglia impegnarsi deve essere preparato e continuare a prepararsi. “Non ci si può improvvisare al servizio degli altri. Non basta mettere in campo semplicemente facce nuove. Occorrono persone serie e competenti. Gli stessi partiti dovrebbero tornare a educare al senso alto della politica, non solo alle tecniche per conquistare il consenso. Se il partito si riduce a comitato elettorale la politica e la democrazia ne soffrono profondamente. L’impegno deve essere continuo e deve coinvolgere anche gli stili di vita dei politici.
 
La Chiesa ha dunque, fra gli altri, anche il compito di suscitare questa vocazione alla politica come servizio. Non in forma di ingerenza, ma come guida, orientamento e sostegno. Sempre nel segno del bene comune. Nelle parrocchie, ha detto il cardinale, “spesso si fatica a parlare di politica”, perché si ha paura delle contrapposizioni e delle accuse reciproche, ma questo è un segno di “immaturità e fragilità delle nostre comunità” e va combattuto.
 
Il territorio corre oggi il rischio della desertificazione culturale e morale. Serve un programma, ma soprattutto serve un’anima. E per ridare un’anima alle comunità serve, da parte di tutti, un colpo d’ala: più creatività, più dedizione, più coraggio. La dimensione locale ha spesso un vantaggio rispetto a quella globale: mostra un volto più umano. Di conseguenza i problemi si fanno meno lontani e indistinti e le soluzioni sono più facilmente individuabili. Ripartire dal locale: ecco l’altra raccomandazione dell’arcivescovo, che ha proposto come modello per amministratori e politici la figura del buon samaritano: uno che di fronte al bisogno, all’uomo colpito e derubato dai briganti, non si preoccupa tanto di ricostruire l’identikit dei colpevoli, ma di soccorrere e guarire l’aggredito. La tutela della sicurezza dei cittadini non può certo ridursi al soccorso, ma l’altruismo pratico del samaritano indica la voglia di spendersi concretamente per il prossimo.
 
È un esempio di servizio chiamato a declinarsi in varie forme. Perché solo il territorio “dove grande e costante è l’attenzione all’altro sarà un territorio davvero presidiato e dunque più sicuro”. Più abitabile non perché più controllato, più vivibile non perché più blindato, ma perché più umano. Si noti: il samaritano è uno straniero. Il sacerdote e il levita sono del posto, eppure si guardano bene dal soccorrere il ferito. Vedono, ma passano oltre. Lo straniero invece vede, si ferma ed ha compassione del viandante aggredito. L’evangelista fa capire che assalitori e aggrediti possono essere di qualsiasi nazionalità, lingua e religione.
 
E così, ha rilevato Tettamanzi, è anche ai nostri giorni: “I reati che offendono le persone sono commessi sia da italiani sia da stranieri, e vedono come vittime sia chi abita le nostre città da tempo sia chi è venuto da poco”. E non dimentichiamo che sono proprio gli stranieri, spesso, a esercitare compiti di assistenza e di cura. Quei compiti dei quali noi non possiamo o non vogliamo più farci carico. Tutti, ha concluso l’arcivescovo di Milano, devono fare la propria parte. La vera sicurezza dipende da questo clima di cura reciproca. E solo chi è solidale con il prossimo è autorizzato a usare con coerenza l’aggettivo cristiano.
Aldo Maria Valli

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