Liberaci dal male

Pubblicato il 11-02-2021

di Lanfranco Bellavista

Molti abbiamo ascoltato racconti dai reduci scampati, almeno fino ad oggi, da questa pandemia, dopo degenze più o meno lunghe che a tutti hanno lasciato segni indelebili. Il mio racconto inizia dalla mattina della domenica delle Palme, quando ormai ero pronto alle celebrazioni della Settimana Santa e delle solennità pasquali. Dopo una notte insonne accettai di farmi ricoverare per la sopraggiunta sintomatologia da Covid. Il saluto alla mia famiglia è stato nella piena coscienza che c’era un’alta probabilità di non vederci più, ed è stato duro vedere soffrire così tanto i fratelli e le sorelle che si amano. Dopo breve sosta al pronto soccorso fui accolto nel reparto infettivi dell’ospedale di Rimini. Subito fui collegato ai vari monitor e cominciarono a somministrarmi le cure che in quei giorni erano diverse da una parte all’altra del Paese.

Ero in camera da solo e per lo più medici e infermieri comunicavano attraverso il video entrando in camera per lo stretto necessario. Presto fui incappucciato da uno strano scafandro, molto scomodo specialmente durante le notti per il forte rumore del flusso d’ossigeno e per la sua forma che rendeva quasi impossibili alcune posizioni di riposo; intanto i valori del saturimetro scendevano e davano implacabilmente le cifre del venir meno del respiro. «L’uomo è come un soffio e i suoi giorni come ombra che passa». In quei momenti questo era vero per me e quindi dovevo passare dal “si muore” al “io sto morendo”, e davanti a me non potevo calcolare mesi, anni, ma forse ore e non tante persone o luoghi ma solo il Signore, e molto vicino, il prossimo volto che vedrò oggi.

In quei giorni la percezione del tempo si era fatta molto strana perché a volte le ore sembravano dilatate, lunghissime e poi l’impressione opposta di ore accorciate, veloci a passare. In tutto questo la preghiera mi scorreva facile, interiore e incessante e per tutti. Come è stato spontaneo in quei momenti vagare con la memoria in tanti luoghi e ripercorrere i ricordi di grazie e di persone con gratitudine lacrime e tante sfumature interiori! Per tanti giorni il silenzio mi è stato amico, sen- tivo che era il vero compagno che in quel momento il Signore stesso mi donava per affidare a lui tutta la preghiera e con la preghiera il cuore.

Non ho sofferto per la mancanza dei sacramenti pasquali, anzi non ho voluto nemmeno partecipare facendomi accendere il televisore e, rinunciando anche a leggere, ho deciso di vivere a quel modo quella che è stata una Pasqua nel silenzio. Sì, devo confessare che è stata una vera Pasqua vuota ditutto e di tutti senza alcun segno, la più strana della mia vita: una carezza del Signore! Ho ricordato tutte le Pasque passate, momenti irripetibili sempre freschi e nuovi: le Pasque da bambino alla chiesa del paese, fragranti di semplicità; quelle sprizzanti giovinezza a Taizé; quelle semplici in eremi francescani; quelle solenni quando prestavo servizio al cardinal Lercaro e le tante uniche e preziose a Gerusalemme dove non perdevo nemmeno, grazie alla sfasatura del calendario, quelle ortodosse e copte. Ma sopra tutte le calde liturgie in comunità con i miei fratelli e sorelle! Questa di quest’anno le riassumeva tutte: l’ultima quaggiù. Dopo Pasqua i miei valori hanno ricominciato lentamente a risalire e sono stato trasferito in un altro settore con un compagno di stanza al quale nella settimana prima del suo ricovero erano morti il padre e la madre.

L’incontro fisico col dolore e la disperazione di tanti mi ha fatto ancor più sperimentare che bisogna insistere col Signore perché ci liberi dal male, da tutti i mali, e gridare a lui la preghiera principale della settimana santa: «Guarda Signore all’umanità intera sfinita per la sua debolezza mortale». Posso dirvi sinceramente che non ho mai pregato egoisticamente per me, ma è stato facile in quei momenti sentirmi dentro e partecipe di questa umanità sfinita per debolezza mortaleIl mio vicino di letto ha saputo solo gli ultimi giorni che ero un prete e questo ha facilitato questa comunione dal basso con lui.

Abbiamo ricevuto tante delicatezze dal personale, da quelli che venivano per le pulizie fino al primario e tutte assumevano un peso straordinario in quella condizione, anche il «ti voglio bene» di Ernesto (il saluto finale che Ernesto Olivero manda ogni giorno agli ascoltatori del suo “buona giornata” n.d.r.) me lo sono gustato come non mai, una vera infusione di bene diversa dalle tante flebo che in quei giorni mi hanno scaricato nelle vene. Poi alla fine, il martedì della seconda settimana di Pasqua sono tornato in famiglia ed è stata una gioia vedere quanto ci amiamo e desideriamo vedere il volto dell’altro. Soprattutto i primi giorni ho fatto una vera riscoperta dei volti di casa e i volti dei nostri bambini, ne ero incantato. Anche in quei momenti mi risuonava in cuore la liturgia pasquale: «Dio immutabile, compi l’opera della tua misericordia, tutto il mondo veda e riconosca che ciò che è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova e tutto ritorna alla sua integrità». Ma sopra tutte le parole mi rileggevo, e ora ogni giorno rileg- go, quelle riportate da san Benedetto nel prologo della sua regola al n. 38 «ci vengono prolungati i giorni della nostra vita secondo le parole dell’apostolo Paolo: "Non sai che la pazienza di Dio ti spinge a conversione?”» (Rm 2,4). Dice infatti il Signore che ha avuto pietà di te: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva». Come è bella la nostra vita, di chi si è convertito a servizio del Signore e dei fratelli.


Lanfranco Bellavista
NP dicembre 2020

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