Non pace in SUDAN/1

Pubblicato il 31-08-2009

di sandro


Il cardinale Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum, ci spiega cosa sta accadendo nel suo Paese, in cui è in corso una ventennale guerra tra Nord e Sud, e qual è il ruolo della Chiesa sudanese...


Eccellenza, qual è la situazione nel Sudan di oggi?
Il Sudan è uno Stato molto vasto con molte situazioni problematiche: è stato devastato da una guerra che è durata 23 anni, a causa della quale due milioni di persone sono morte e quasi quattro milioni di uomini devono affrontare la condizione di rifugiato. Alcuni di questi si sono diretti nei Paesi vicini come Kenya, Uganda, Etiopia, altri si sono mossi dal sud del Sudan, dov’è il centro della guerra, al nord del Paese, diretti nelle grandi città, con la speranza di trovare posti di lavoro per poter sopravvivere.

Le persone che rimangono nel sud del Paese vivono costantemente nella paura. Il governo aveva infatti in programma di eliminare tutta la gente con bombardamenti aerei diretti sui civili, di armare alcune milizie con lo scopo di sterminare, rubare, rapire donne e bambini.
Le persone che arrivavano a nord del Sudan, specialmente all’inizio, erano uomini in fuga, che si allontanavano dal luogo nel quale erano cresciuti senza poter prendere nulla con sé. Non so che speranza potevano avere, ma loro sono arrivati a Khartoum.
Lì abbiamo cercato di donare ciò che potevamo e, grazie alla generosità di alcune persone e organizzazioni che hanno messo a disposizione i viveri, siamo riusciti ad intervenire migliorando temporaneamente la condizione di un buon numero di profughi.
Il problema più complesso che dovevano affrontare era legato alla difficoltà di trovare alloggio: per questa ragione si sono sistemati nelle baracche attorno alla città. Dovevano iniziare da capo una nuova esistenza!

La vita dei rifugiati è molto difficile, perché spesso le forze della sicurezza fanno irruzione nei campi, dando fastidio, facendo controlli...
Ho voluto impegnarmi particolarmente nei riguardi dei bambini, aprendo delle scuole, edifici fatti con paglia e sacco. Quando viene la pioggia o una tempesta dobbiamo ricominciare daccapo, inoltre i bambini soffrono al calore del sole, per cui già in vista dell’anno venturo speriamo di trovare dei mezzi per costruire queste scuole in mattoni. Col tempo, le scuole costruite sono arrivate a 70, con cinquemila bambini dall’86 fino ad oggi. Cerchiamo di procedere con questo progetto: se dovessimo abbandonarlo, tutti questi bimbi sarebbero destinati alla strada.
La polizia, solitamente, quando trova bambini per strada, senza conoscere informazioni sui loro genitori, li porta via; parecchi sono spariti in questa maniera. Quindi queste scuole sono molto importanti per i bambini che le frequentano. Gli scolari vengono seguiti fino al ciclo delle elementari, poi si cerca di farli entrare negli istituti governativi per iniziare il ciclo delle secondarie.
 Cosa è importante dire del Sudan che il mondo occidentale non capisce o non vuole capire?
Il mondo occidentale non capisce che il Sudan è veramente un Paese che è costituito da due diverse razze: africani e arabi. All’inizio ci siamo trovati sotto la dominazione degli arabi. Tutto era in mano loro. Sono arrivati al punto di imporre la loro religione, che doveva essere seguita indistintamente: tutti dovevano essere musulmani, la lingua era quella araba. E allora i popoli del Sud si sono ribellati. Vogliono uguaglianza e pari trattamento, mezzi anche per svilupparsi, ma soprattutto non riescono a sopportare che una religione sia superiore ad un’altra.
Tutti sanno che una sola e determinata lingua per un Paese è molto più comoda per lavorare, per comunicare, ma non per questo si devono dimenticare le lingue tradizionali che sono parte della cultura.
Eliminando queste lingue, si distruggono le persone che le hanno utilizzate fino ad ora. Non si possono spazzare via dicendo che tutti devono imparare l’arabo. Anche ciò è all’origine di questa guerra che sta durando ancora.
I nostri politici non capiscono che ci sono tante ingiustizie e tanta oppressione. Devono cambiare se vogliono che i due popoli stiano insieme. Se non cambiano, anche se firmano la pace oggi, scoppierà un’altra guerra domani.
È vero che si prospetta una futura possibile divisione del Sudan?
Questa è una possibilità. Quando si è parlato di clemenza verso i crimini commessi, questo problema era stato messo sul tavolo: un Sudan o due Sudan? Vogliamo la separazione? Allora quelli del Sud non avevano gente preparata, e quelli del Nord li avevano manipolati fino a far loro accettare il fatto che il Sudan era uno solo. Adesso quelli del Sud dicono che in quel periodo non c’era gente preparata per pensare a questo problema… Ma adesso noi pretendiamo di decidere: stiamo con gli arabi o stiamo da soli?
Ci sarà effettivamente la possibilità di deciderlo?
Adesso, dopo la firma degli accordi, sono previsti sei anni di preparazione per questo referendum.
Come si pone la presenza della Chiesa cristiana rispetto al “processo” di islamizzazione del Paese?
È una presenza abbastanza forte: dall’indipendenza fino ad oggi la Chiesa sta crescendo, e infatti il numero dei cristiani aumenta ogni anno. Il governo ha cercato con tutta la forza di cui era capace di opprimere e di fermare la crescita del cristianesimo, ma fino ad ora non c’è riuscito, né con la forza, né con l’inganno. Adesso vogliamo vedere con che programma proveranno ad eliminare il cristianesimo nel Sudan. Noi cristiani non possiamo costruire delle chiese, né possedere un terreno registrato a nome della Chiesa o del Vescovo, perché di fatto non abbiamo diritti. Anche le pubblicazioni cristiane trovano le stesse difficoltà. Non possiamo importare Bibbie, ecc.
 Queste cose sono impedite per legge o è una situazione di fatto?
C’erano delle leggi, dicono che sono state abrogate, ma le applicano ancora, e così nelle dogane vengono eliminati i testi sacri. È per questo che abbiamo cercato di stampare localmente alcuni libri, come la Bibbia, come il Catechismo della Chiesa, messali, preghiere del giorno. Ma è un lavoro pesante, ci vogliono dei mezzi per farlo.
Qual è la speranza su cui si può contare, su cui bisogna lavorare di più, per aiutare questo Paese dall’esterno e anche dall’interno?
Dall’interno occorre sensibilizzare la gente alla loro situazione, darle delle idee. Io penso che siamo riusciti molto in questo lavoro perché, a fronte di ripetuti tentativi di provocare, per esempio, delle rivolte per uccidere dei cristiani, si è capito che la nostra resistenza doveva essere pacifica, non violenta. Già tre volte ci sono stati tentativi di demolire una delle nostre chiese, ma i fedeli le hanno occupate: “Se volete demolirle, demolitele sopra di noi”.
Questa filosofia filtra attraverso le scuole?
Attraverso le scuole certo, e anche attraverso le omelie. Ho cominciato con i giovani, dando loro un po’ di forza attraverso congressi in cui discutiamo della situazione, ragioniamo su ciò che si fa. Li aiutiamo così a pensare al futuro. Il futuro è qui, e loro ne saranno i responsabili, e il futuro è più lungo per loro che per noi.
Allora non è ragionevole rovinare le cose, correndo così il rischio di fare solo del male a se stessi. Io penso che la risposta sia buona, ci sono delle idee, tendiamo ad andare avanti su questa strada.
E i giovani ci credono o sperano in fondo di andare via?
Alcuni vanno via, ma altri decidono di restare. La questione è di convincerli ad organizzarsi al loro interno: solo così potranno andare avanti. E anche ad approfittare di ogni occasione che viene loro offerta per camminare in avanti. Io penso che molto di ciò che stiamo facendo, dell’esperienza di questi ultimi anni, rimarrà nel loro cuore, nella loro vita.
Per quanto riguarda invece le condizioni dei profughi nella regione del Darfur, in questi ultimi tempi anche i grandi media vi prestano attenzione. Qual è la vera dimensione di questo dramma?
È un fatto che ci sono dei rifugiati, ma è uno Stato intero che è dentro a questo problema. E allora anche quelli che non sono là dove si muore e si combatte sanno che prima o poi arriverà il dramma: l’uso dei bombardamenti e delle milizie fa paura, quindi è meglio scappar via prima che si venga in qualsiasi modo attaccati. Non conosco così precisamente la dimensione del problema, ma si tratta anche in questo caso della drammatica condizione di migliaia e migliaia di persone.
Io posso ripetervi che la Chiesa cresce, nonostante la guerra, nonostante tutto. Anche nel nord, a causa della presenza dei rifugiati, che si sono dispersi in tante parti, paradossalmente il cristianesimo si sta svegliando; anche i giovani mussulmani vedono come vivono i cristiani. Il problema è di riuscire in una catechesi più forte, più profonda: non è questione solo di disperdersi, ma dobbiamo cercare di andare a fondo anche nella preparazione religiosa.
Ci sono dei musulmani che si sono convertiti al cristianesimo?
Vi sono alcuni adulti che si sono fatti cristiani: non sono tanti, ma il fatto che alcuni di loro vogliano conoscere il cristianesimo è già una cosa significativa. Io penso che i giovani, i nostri giovani, siano un po’ un’attrazione per i giovani musulmani, perché questi ultimi vedono quando i giovani cristiani sono insieme: c’è più gioia, c’è più unità. Invece, nei loro raduni, i musulmani non hanno lo stesso spirito.
da Nuovo Progetto
Speciale 3 ottobre 2004






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