PARLA IL SINDACO

Pubblicato il 31-08-2009

di Claudio Maria Picco

Sergio Chiamparino da 8 anni è al vertice della giunta che amministra Torino, cuore e motore del Nord Ovest, ex capitale dell’auto in cerca di nuove strade.

di Claudio Maria Picco

Ci accoglie nel suo studio, un’ampia stanza arredata con sobrietà, affreschi di Gian Antonio Recchi raffiguranti il miracolo eucaristico sul soffitto e sulle pareti, la televisione accesa sull’ultima notizia del televideo (un missionario di Torino ucciso in Kenya). Argomenta con pacatezza, anche se alcune delle vicende di cui parla hanno lasciato il segno nella città. Con il 75% dei consensi, è il sindaco con il più alto gradimento nel Paese. La sua linea è quella di essere presente - di persona e come  amministrazione - dove ci sono i problemi.

"Negli anni ‘90 - afferma - c’è stato un cambiamento epocale, il passaggio dalla democrazia dei partiti alla democrazia dei cittadini. I partiti non possono più pretendere di essere i gestori dello Stato, quelli dove si decide chi fa l’amministratore delegato o chi va in quel consiglio di amministrazione. Devono essere interpreti e controllori in nome e per conto dei cittadini, che è un’altra cosa. Questo non sempre riescono a farlo bene fino in fondo".

 Sergio Chiamparino all'Arsenale della Pace


Cosa fa il sindaco di una grande città per far incontrare amministrazione e amministrati?

Non c’è una ricetta. L’esperienza mi dice che quasi tutte le iniziative e le politiche che fa un’amministrazione locale si arricchiscono nel confronto con i destinatari delle politiche stesse. Tanto la quotidianità amministrativa, quanto la sicurezza urbana o i grandi progetti come la metropolitana, sono politiche la cui progettazione e realizzazione non può non essere costellata da momenti di confronto con i cittadini.

Il sindaco Chiamaprino durante l'intervista
Sono due i numeri di Torino che sembrano essere portatori di conflitti e di crisi: 45.000, riferito ai cassaintegrati (60.000 i posti a rischio nel comparto Fiat). 5.781 il valore in euro del debito che grava su ogni cittadino torinese e che fa di Torino la città più indebitata del Paese. Come li interpreta, come li valuta? 

I cassaintegrati purtroppo hanno un’interpretazione sola, sono persone che vedono una riduzione di reddito, per ora temporanea, ma che, se non ci sarà presto una ripresa del ciclo dell’economia, rischia di causare una caduta di reddito strutturale. Purtroppo gli enti locali possono far poco. Nelle situazioni di crisi strutturale noi anticipiamo la cassa integrazione in maniera tale che i lavoratori non debbano aspettare mesi se non anni per avere i 700 euro al mese. Riguardo al bilancio comunale, che il comune di Torino abbia un indebitamento alto è noto ed è ovvio. In un arco di tempo molto concentrato, grosso modo dal 2000 in poi, abbiamo fatto una serie di investimenti molto elevati, dalla metropolitana, alla parte nostra del passante ferroviario, alle Olimpiadi, a tanti altri interventi.

Un debito comunque che ha delle ricadute sulla città, in termini di servizi.
La stessa ricerca (si tratta di uno studio condotto sui rendiconti 2007 di 23 grandi Comuni italiani, realizzata da due ricercatori del Politecnico di Milano per conto di Civicum - n.d.r.) che ha prodotto il dato da lei citato sostiene che Torino è la città che utilizza meglio i fondi per il funzionamento della macchina comunale. È la città che ha il più alto tasso di investimenti nell’istruzione, che ha il secondo maggior investimento nella sicurezza urbana. Io dico che intanto il debito si è creato perché gli interventi sono stati concentrati in poco tempo. Se si fa tutto in pochi anni è chiaro che la curva del debito sale. In secondo luogo, il debito non è servito per andare a giocare al casinò o per pagare gli stipendi, è servito per fare delle opere, non ancora concluse, che tra l’altro è giusto fare a debito perché ne godranno le future generazioni. Sulla metropolitana o sul sistema ferroviario urbano io spero di andarci ancora per tanti anni naturalmente, ma è evidente che servirà a mio figlio più di quanto non serva a me. Il debito ha una sua fondatezza, anche dal punto di vista etico, quando si fanno le grandi opere, perché spalma i costi sulle generazioni che ne usufruiranno. Sarebbe sbagliato se io lo facessi pagare solo attraverso le tasse, vorrebbe dire che io e lei pagheremmo per intero delle opere che andranno a beneficio prevalentemente di altri. Questi interventi si possono fare o aumentando le tasse, cosa che noi non abbiamo fatto, o con i soldi dello Stato, o con un’altra soluzione che stiamo realizzando: gestire il debito, intanto riducendo gli investimenti. Avendone fatti tanti in una certa fase, ne facciamo meno adesso, facciamo l’essenziale. In secondo luogo valorizziamo il patrimonio. Stiamo cercando di riorganizzare le aziende, di vendere una parte del patrimonio.

I conflitti oggi riguardano soprattutto l’ambiente e l’urbanistica. In questo settore la mentalità comune afferma: fate tutto quello che volete, ma non fatelo nel mio cortile. Nessuno vuole essere direttamente coinvolto. Lei cosa ne pensa?
È chiaro che la stragrande maggioranza è disposta ad ammettere l’utilità di tante opere, dal termovalorizzatore alle ferrovie veloci e non veloci, alla stessa metropolitana, poi però tutti vorrebbero che fossero fatte non proprio sotto casa. Qui si torna al punto da cui sono partito: il valore della discussione, del coinvolgimento, valore che naturalmente ha un limite. Il limite è che ad un certo punto bisogna decidere e che una minoranza non può prevalere. La discussione deve essere massima, ma c’è un punto oltre il quale non si può andare, non c’è una minoranza che può avere il diritto di veto.

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Su questi temi il principio del bene comune ha ancora un peso?

Andrebbe reintrodotta un’etica dell’interesse generale anche all’interno di queste scelte. In attesa che diventi una cultura diffusa e propria della maggioranza dei cittadini - e io sinceramente non sono molto ottimista - ritengo che sia compito di chi ha delle responsabilità pubbliche affermare l’interesse generale.

La Tav è un caso concreto per capire come si può intervenire in un conflitto anche aspro?
La Tav è uno degli esempi più paradigmatici di come se non c’è il dialogo c’è lo scontro. Finché si è proceduto senza dialogo o comunque non ricercando tutto il dialogo possibile, nella protesta si sono confuse istanze diverse. Si è confusa la legittima esigenza di chi ritiene che il progetto possa essere migliorato, la legittima protesta di chi si vede danneggiato e quindi chiede un riconoscimento del danno, e tante altre legittime istanze, con delle posizioni politiche legittime, che come tutte le posizioni politiche devono passare al vaglio della democrazia, quindi della legge della maggioranza. Nessuno può pretendere di bloccare con atteggiamenti localistici una decisione se non è maggioranza. I due anni di lavoro dell’Osservatorio sono serviti a diradare le nebbie. Il 2009 è l’anno in cui bisogna che si arrivi ad una decisione su un nuovo tracciato, sulla cui base fare la gara per la parte preliminare dei lavori. Non si fa nessuna opera con i carabinieri, se c’è il dialogo vengono fuori diverse istanze. Bisogna tenere conto di tutto quello di cui si può tenere conto, poi però bisogna decidere. 


Intervista di Claudio Maria Picco
da Nuovo Progetto febbraio 2009

 

 

 

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