Quarantene

Pubblicato il 11-10-2020

di Simone Bernardi

Un treno della São Paulo Railway Company, carico di immigrati italiani, taglia le foreste della catena del mare, che separa il litorale di Santos dall’altopiano paulista. Dopo settimane di viaggio accatastati nella stiva di due piroscafi europei, sballottati dall’Atlantico, avviliti e in condizioni igieniche a dir poco precarie, non sanno nulla di quello che li aspetta, ma alcune autorità sanitarie della nuova patria devono già prendere una decisione sul loro immediato destino.

È il 5 giugno del 1887. I giornali di San Paolo – una metropoli in gestazione, già in espansione per l’economia del caffè – annunciano casi di vaiolo tra gli ospiti del fatiscente edificio governativo nel quartiere del Bom Retiro, dove sono diretti i nuovi arrivati. Ecco il dilemma: rischiare il rapido e probabile contagio di quel carico umano oppure portarli da un’altra parte? La decisione è presa: il treno dovrà proseguire sino al nuovo centro di accoglienza, ancora in costruzione, nel quartiere periferico del Brás. Quegli 800 esseri umani stremati dovranno accomodarsi in dormitori ancora privi di letti e con un numero di latrine limitato, ma perlomeno scamperanno da quel contagio.

L’improvviso dirottamento, dovuto al rischio di un’epidemia, inaugura, ufficiosamente, quella che diventerà la storica Hospedaria de Imigrantes, l’Ellis Island paulista, uno dei luoghi più significativi della storia brasiliana degli ultimi 130 anni, non solo perché vi passeranno 2,5 milioni di emigranti, che cambieranno letteralmente il volto del Paese, ma anche perché la gestione di questo gigantesco e ininterrotto flusso di esseri umani si intreccerà continuamente con la storia della sanità pubblica nazionale, in un certo senso, sino alla pandemia del Covid-19, rispetto alla quale il Brasile è il 2° Paese più colpito al mondo.


Hospedaria in quarantena, ieri

I muri perimetrali del grande complesso della Hospedaria de Imigrantes vennero terminati pochi mesi dopo. Quel perimetro di ringhiere e mattoni a vista sarebbe diventato, negli anni, non solo il labile confine tra gli abitanti di San Paolo e quelli in attesa di diventarlo, ma anche tra contagiati e sani, tra sottoposti a quarantena e non, tra la speranza e la disperazione.
Oltre a fornire vitto e alloggio, registrare i documenti e svolgere la funzione di ufficio di collocamento a servizio dei fazendeiros del caffé, l’Hospedaria funzionava anche da presidio sanitario. Appena arrivati – oltre all’igiene personale, la disinfezione e il cambio dei vestiti – gli immigrati venivano visitati da un medico e ricevevano i primi vaccini contro le malattie che all’epoca affliggevano il Brasile e verso cui i nuovi arrivati non erano immuni.

Dopo l’ennesima epidemia di vaiolo, fu la volta della peste bubbonica e, nel 1889, di una nuova epidemia di febbre gialla. Quando, nel 1918, scoppiò la pandemia della spagnola, uno degli eventi più letali della storia, anche San Paolo venne gravemente colpita. Una struttura come l’Hospedaria, costruita per ricevere sino a 3.000 persone, aveva bisogno di misure adeguate per evitare che le malattie – che causarono anche numerosi morti all’interno della struttura – oltrepassassero le sue mura.

Una delle risorse più utilizzate fu la quarantena. Se per tanti – reduci dalla pandemia in corso del Covid-19 – questa parola richiama l’esperienza di un appartamento condiviso, di una casa fuori porta, da soli o in compagnia, ma comunque un “chiusi dentro” faticoso, immaginiamoci cosa poteva significare una quarantena tra il 18º e il 19º secolo, dopo settimane tremende di viaggio, sognando una nuova vita, ma anche temendola: nuova lingua, nuovo clima, nuovo cibo, nuovo contratto di lavoro, in una mentalità ancora modellata dal regime di schiavitù.

Come avvenuto in altri secoli e in altri contesti, ma con delle caratteristiche peculiari nel caso del Brasile, gli stranieri, i più poveri e soprattutto gli schiavi africani – che una volta “liberi”, ma abbandonati a se stessi, finirono inevitabilmente per inaugurare le favelas – venivano facilmente stigmatizzati come pericolosi portatori di disordine e di malattie, essendone in realtà le principali vittime.

Su questa trama, si possono constatare delle profonde linee di continuità tra quel Brasile di fine ᾿800 – ultimo Paese del Nuovo Mondo ad abolire la schiavitù, nel 1888 – e il Brasile del 2020 afflitto dal coronavirus, dove i più poveri e, tra di essi, gli indigeni e una schiacciante maggioranza nera e meticcia delle periferie, si trova ad affrontare difficoltà già insormontabili, e ora esasperate, nel seguire le misure di confinamento: come mantenere il distanziamento sociale se si vive ammassati in una faleva? Com’è possibile “stare a casa” se una casa non la si ha?


Hospedaria in quarantena, oggi

Tra le diverse realtà che in Brasile si sono ritrovate a dover rispondere in presa diretta a queste drammatiche domande c’è il Sermig che nell’immensa San Paolo opera attraverso l’Arsenale della Speranza, nato nel 1996 proprio tra le mura di quella che fu la storica Hospedaria de Imigrantes del Brás, ormai abbandonata e semi-disabitata.
Grazie all’impegno di missionari e volontari italiani e brasiliani l’antico portone, che aveva vegliato il transito di milioni di immigrati, si riapriva per ricevere il “popolo della strada”, i cosiddetti “moradores de rua”, giovani e adulti che lavorano nel sommerso per racimolare qualcosa e che hanno solo un pezzo di cartone su cui passare la notte. Ad oggi, all’Arsenale della Speranza sono state accolte oltre 63.000 persone – 1.200 al giorno – ma in questi 24 anni nessuno avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe stata riattivata anche l’anticha funzione sanitaria di questo spazio, rimasta sopita nel tempo: la quarantena.

Quando i missionari del Sermig hanno saputo del primo caso di contagio accertato da Covid-19 a San Paolo – che rimane il principale epicentro della pandemia in Brasile –, è stato subito evidente che gli ospiti dell’Arsenale della Speranza non avrebbero potuto rispettare nessuna delle raccomandazioni fornite dall’OMS, a partire da quella di rimanere in casa, semplicemente perché una casa in cui poter passare un’intera giornata non ce l’hanno. Le raccomandazioni che il mondo sta dando per difendersi dal coronavirus sono dirette, di fatto, a determinati ceti sociali. Da un certo livello in giù, purtroppo, sono impraticabili. La malattia accomuna tutti, ma la prevenzione e l’accesso alle cure mediche no.

Come nel passato – davanti a quel rischio di un’epidemia che aveva inaugurato, ufficiosamente, l’Hospedaria de Imigrantes – anche la Fraternità del Sermig si è trovata davanti a un dilemma: basarsi sulla compassione, che ha sempre mosso questo progetto oppure chiudere temporaneamente il servizio di accoglienza, per non rischiare che la grande casa dell’Arsenale diventasse una “bomba biologica” di diffusione del virus? Assonanze e risonanze storiche...

Ed ecco la decisione: trasformare l’Arsenale della Speranza in una quarantena, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Il 23 marzo 2020, a mano a mano che la lunga fila dei 1.200 ospiti entrava, assistenti sociali ed educatori li radunavano in gruppi: «Signori, per cercare di proteggerci dal contagio, a partire da oggi chi entra vi rimane a tempo indeterminato. Le autorità in campo sanitario dicono che il nuovo coronavirus è una minaccia per la vita e, dunque, la cosa migliore da farsi è rimanere in casa, giorno e notte dentro l’Arsenale».

Oltre 1.000 persone sono rimaste. Letteralmente, un popolo. L’Arsenale, pur grande, si è dovuto reinventare, trasformare, cambiare ritmo per permette a centinaia di uomini – che normalmente passano la giornata come “nomadi urbani” – di stabilirsi in un posto, mangiare, dormire, prendersi cura dell’igiene personale e di tante altre questioni ora divenute di fondamentale importanza.
Dal 23 marzo, l’Arsenale ha dato fondo a tutte le risorse per garantire il vitto extra agli ospiti e mettere in piedi una lunga serie di accorgimenti e di attività per trascorrere la giornata, creando le condizioni affinché la quarantena potesse durare nel tempo: montaggio di tensostrutture per garantire ambienti coperti e ventilati, sale d’incontro trasformate in deposito per le donazioni, postazioni di triage all’esterno per gli assistenti sociali, oltre 200mila pasti serviti (tra colazioni, pranzi e cene)...

Uno sforzo enorme che ha richiesto e ricevuto la solidarietà e l’aiuto concreto di decine di singole persone, associazioni, organizzazioni sociali, gruppi di solidarietà che hanno rifornito l’Arsenale e i suoi abitanti di generi alimentari di base, kit per l’igiene personale e prodotti per le pulizie... un segnale positivo e incoraggiante di una società civile che, oltre ad aiutare, finisce con lo svolgere anche un significativo ruolo di ponte tra “mondi separati” all’interno della stessa città.


Hospedaria in quarantena, e domani?

In Brasile, il coronavirus ha già provocato oltre 110mila decessi, più di 3,5 milioni di casi confermati di contagio e la perdita di 1,5 milioni di posti di lavoro, senza che il picco pandemico sia stato ancora raggiunto e in mezzo ad una feroce guerra politica tra Governo Centrale e gli Stati della Fede¬razione che genera incertezza e paura. Nessuno oggi è in grado di prevedere la portata e l’esito finale di questa crisi.

Per quanto riguarda l’Arsenale della Speranza, sono già trascorsi oltre 5 mesi dall’inizio di questa inedita e, in un certo senso, storica “quarantena di massa”, una sorta di ultimo anello formatosi sul vecchio tronco dell’Hospedaria de Imigrantes. Il bilancio, per ora, è di nessun quadro grave di salute e nessun caso accertato di Covid-19.

Nemmeno l’Arsenale è in grado di prevedere come andrà a finire questa storia... ma se si può tirare una conclusione, seppur provvisoria, forse si può dire che davanti ad un problema, soprattutto se ha il volto di una persona o di una comunità in difficoltà, non basta offrire “qualcosa”, una soluzione di ripiego, bisogna dare il meglio che è nelle nostre possibilità, arrivando al cuore dei problemi, per continuare a dare speranza a tutti.


Simone Bernardi
NP agosto / settembre 2020

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