R. D. CONGO: La frontiera di Bukavu

Pubblicato il 31-08-2009

di sandro


Intervista a suor Lucia Sabbadin, dal 1988 missionaria a Bukavu, città della R. D. Congo lungo la difficile frontiera con Rwanda e Burundi: un pezzo di Africa, teatro di un conflitto mondiale.

a cura della redazione


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Come si vive (o sopravvive) a Bukavu?
Nella zona di Bukavu abbiamo il coltan, l’oro e un po’ più lontano i diamanti, ma si tratta di ricchezze potenziali: per la mancanza di un tessuto economico di tipo operativo e organizzativo, ognuno fa i propri interessi e la gente non ne usufruisce. Ad esempio, gruppi di rwandesi, in accordo con alcuni congolesi oppure corrompendo i doganieri, portano via le materie prime di valore. I giovani vanno a lavorare nelle miniere, ma quando ritornano per sposarsi hanno la tubercolosi o l’Aids: è una specie di suicidio per la povera gente.

Poi ci sono i “capoccia” che profittano della situazione e loro, in pochi, sono veramente ricchi! In questo momento, oltre all’aspetto politico è molto cruciale quello economico! Una delle preoccupazioni della società civile e dei missionari è quella di creare dei nuclei di riflessione per poter attivare microstrutture di tipo economico che portino ad una “economia per la gente”.

Ci sono prospettive di sviluppo?
Viviamo veramente in un sistema di miseria: ci sono mamme che comprano un cesto di pomodori, fanno decine di km a piedi la domenica per giungere a Bukavu, poi dividono il cesto in quattro parti ed altre mamme prendono un quarto di cesto e si mettono tutto il giorno sulla strada per vendere i pomodori. Se non hai i soldi per pagarli li pagherai il giorno dopo. Se per caso alla sera non hai venduto quei pochi pomodori, i tuoi figli non mangiano. Con alcuni amici ho dato vita ad un progetto di pesca per aiutare e “difendere” i poveri di Burhiba, una parrocchia della periferia. C’è il lago e il pesce, ma i pescatori incontrano grandi difficoltà sia perché c’è la guerra, sia perché i militari pretendono parte del pescato. Siamo parte di un sistema economico molto fragile, ma mi ha fatto piacere, proprio prima di venir via, constatare che tutti i pescatori si sono organizzati per andare a denunciare alle autorità i soprusi dei militari e anche di chi usa le zanzariere per andare a pescare lungo la riva uccidendo tutti i pesci nella fase della riproduzione. Questa azione, che è stata fatta in modo intelligente e con la protezione di alcune autorità, potrà darà buoni frutti. È un piccolo esempio, semplice, per spiegare la fatica di risanare un sistema di corruzione.

La gente lotta per i suoi diritti?
La gente oggi comincia a svegliarsi e a chiedere i propri diritti, protesta con manifestazioni a volte pacifiche e a volte anche un po’ violente, anche se poi accetta che il militare venga a prendere le sigarette e non gliele paghi, perché potrebbe anche sparare. I militari di cui parlo sono congolesi che purtroppo non sono pagati oppure sono pagati meno di dieci dollari al mese e vivono una situazione di fame. La maggior parte arrivano dall’Equatore, sono ragazzi giovani che hanno lasciato moglie e figli.

Quali sono le condizioni dei giovani?
Oltre a lavorare come cercatori d’oro nelle miniere, i giovani cercano lavoro nel commercio oppure chiedono di fare i guardiani delle case dei benestanti; devono passare la notte all’aperto, ma in questo sistema barbaro, purtroppo, non sempre sono pagati. Spesso succede che a fine mese dovrebbero ricevere 15 dollari (mezzo dollaro al giorno) ma chi li ingaggia non li paga. Sono ragazzi che sognano di farsi una famiglia e per guadagnare un po’ partono all’avventura (insieme a due o tre amici), senza sapere dove andranno a finire. È un esodo micidiale, direi un suicidio, perché vanno dove non ci sono servizi sanitari, magari non hanno neanche da mangiare, c’è la prostituzione, il lavoro è pesantissimo e, sempre che non succedano incidenti mortali, finiscono per tornare a casa ammalati. Sono quindi progetti non orientati, non protetti, avventure vere e proprie. Proprio per evitare questo esodo, le “mie suore” che vivono in una zona rurale, al limite della foresta, hanno creato una scuola professionale, di falegnameria.

I ragazzi dei vostri centri che tipo di attività fanno?
La maggior parte vanno a scuola, sono ragazzi che stanno crescendo. Durante l’estate i Cooperatori, insieme alle suore, per non lasciare i ragazzini sulle strade (a Bukavu quasi tutte le mamme fanno il piccolo commercio per sfamare i loro figli), organizzano quello che qui chiamano “campo estivo” per centinaia di ragazzi dai sette ai quindici anni. Si formano diversi gruppi, secondo l’età, ognuno ha i suoi animatori; ci sono momenti di catechesi, di lavoro (ricamo o altro), di creatività come il teatro, di gioco e di sport (soprattutto football).
La guerra in R. D. Congo
Sul territorio congolese si fronteggiano, con appoggi internazionali, gli eserciti regolari di ben sei Paesi per il controllo dei ricchi giacimenti di diamanti, oro e coltan del Congo orientale. Proprio in queste regioni (dove si trova Bukavu) continuano, nonostante ripetuti accordi di cessate il fuoco, le violenze da parte di gruppi armati e di milizie straniere: almeno 350mila le vittime dirette di questo conflitto, quasi 3 milioni contando i morti per carestie e malattie causate dal conflitto. Gran parte dei decessi è dovuta a malattie facilmente curabili, ma la guerra ha distrutto gli ospedali e le altre infrastrutture sanitarie. La popolazione congolese spera molto nelle prossime elezioni per poter cominciare a parlare di ricostruzione del Paese, ma secondo quanto riferito dalle agenzie e riviste missionarie (tra le poche a garantire notizie in merito) le votazioni - previste per il 30 giugno ’05 - non potranno aver luogo: tra le difficoltà di tipo logistico per preparare le liste elettorali e i seggi, c’è anche il fatto che milioni di congolesi non hanno un documento d’identità; inoltre, la legge elettorale non è ancora stata votata. Si teme che il rinvio dell’appuntamento elettorale possa generare una catena di proteste con conseguenze imprevedibili.

I bambini, all’interno della loro famiglia, hanno dei compiti precisi: i più piccoli vanno ad attingere acqua (perché nella maggior parte dei posti non esiste l’acqua in casa) e a cercare legna. Poi hanno anche piccole attività, per esempio la bambina aiuta a fare da mangiare oppure fa lei stessa da mangiare, aiuta a tener pulita la casa. Inoltre, la ragazzina soprattutto (ma anche il bambino) è educata fin da piccola ad occuparsi dei propri fratellini.

Come siamo considerati noi europei?
Certamente vi invidiano, perché vedono tutto il progresso che c’è. Naturalmente non si rendono conto di quello che costa e comporta. Vedono la facciata del mondo occidentale e quindi pensano che qui ci sia il paradiso terrestre. Quando i nostri medici vengono alcuni mesi in Europa per specializzarsi si rendono conto che non è tutto rose e fiori e che non è facile portare lo sviluppo dell’Europa in Africa. Un giovane medico congolese, dopo aver passato alcuni mesi in Belgio, mi chiese perché i medici venuti in Europa non hanno poi applicato nel loro Paese quello che hanno visto, la serietà nel lavoro, l’uso del tempo, il rigore nel fare le cose.

Sicuramente sono qualità che apprezzano, ma tornati a casa si scontrano con la realtà: ti metti a lavorare però ti mancano gli strumenti. Ad esempio un medico passa in sala di rianimazione, vede il malato in coma, fa la diagnosi di meningite, però l’ospedale non ha le medicine e allora fa la ricetta e la consegna ad un familiare perché vada velocemente a comprare i medicinali. Ma costui dice: “io i soldi qui non li ho”. “Dove abiti?” “A 25 km”. Quindi non solo deve fare i 25 km per andare ad interpellare la famiglia, ma poi sa che questi soldi non ci sono e quindi o deve vendere la capra o deve farseli prestare da chi magari non ce li ha. Voglio dire, il medico, in questo caso, ha fatto la diagnosi, ma poi è come se il suo servizio fosse finito, perché bloccato dai tanti ostacoli.

Da lontano uno pensa che l’Europa sia proprio il paradiso terrestre, ma quando uno capita sul posto fa l’esperienza che c’è, forse, ci sono meno solidarietà, meno calore, meno dialogo. Quelli che vengono in Europa spesso si scompensano perché è un mondo troppo diverso. In Africa c’è una dimensione comunitaria molto forte che si esprime nel lavoro ma anche attraverso la fede: ognuno si sente di essere parte di una comunità. Io guardo i miei amici medici: diversi, dopo il lavoro, rientrano in famiglia e insieme alla moglie e ai figli vanno a messa; non si vergognano, anzi sono orgogliosi di pregare, di far parte di una comunità di base, di dare il loro contributo. Naturalmente ci sono anche situazioni diverse e quindi non si può generalizzare.

Parlaci delle comunità di base.
Io, purtroppo, non prendo parte alle loro attività, ma so come funzionano. Date le dimensioni enormi delle parrocchie (alcune superano i cinquantamila cristiani) è impossibile che si possa creare una comunità cristiana attiva; così in ogni quartiere si costituisce una piccola chiesa, che raccoglie anche duemila persone. Un locale diventa il luogo dove si riunisce questa comunità, una volta la settimana, per pregare, leggere il Vangelo, ascoltarne il commento e presentare i propri problemi. Gli uomini si incontrano tra loro; le donne si incontrano tra loro e così i giovani e i bambini, quindi imparano a conoscersi e a condividere i vari aspetti della loro vita.

Per esempio se c’è una persona ammalata dicono: in quella casa la mamma è ammalata da due mesi e ha bisogno di queste cose; allora si autotassano per sostenere chi è in difficoltà. Qualsiasi avvenimento, sia triste che gioioso, viene condiviso a livello della comunità di base. All’interno di ogni gruppo c’è il presidente, il segretario, il tesoriere, che hanno una grande autorità.

Chi si vuol sposare cristianamente ma non fa parte della comunità di base, non può ottenere il permesso di sposarsi. Cosa succede? Quando va dal parroco a dirgli che vuole sposarsi, gli chiede il cartellino. Se non ha l’autorizzazione del responsabile della comunità di base non ha accesso alla parrocchia e neppure al sacramento del matrimonio. Queste modalità permettono ai cristiani un impegno molto radicato nella vita: la domenica si va a messa in parrocchia, però, tutto il resto lo si vive all’interno della comunità di base.

Il problema è che in queste comunità di base i responsabili spesso non sono formati e quindi a volte la qualità fa difetto. Formare i responsabili è un grosso impegno, poiché in una parrocchia ci possono essere anche sessanta, settanta, ottanta comunità di base. Il parroco, sempre super impegnato prepara gli animatori e i responsabili a livello parrocchiale.

Non partecipare alla comunità di base è quindi segno che non sei un cristiano impegnato. Vicino a queste comunità di base ci sono poi i Movimenti di Azione cattolica. I Carismatici stanno vivendo un momento di grande fioritura, anche perché le forme di partecipazione e d’impegno che propongono sono ben accette all’africano. Il loro, se posso dire così, difetto, almeno dal mio punto di vista, è che a volte hanno uno sradicamento dalla vita concreta. Per esempio, alle tre del pomeriggio vedi la chiesa piena di mamme e di giovani: a me viene la rabbia, perché alle tre del pomeriggio sarebbe meglio che stessero a casa loro a finire i lavori e andare, più tardi, a pregare in chiesa. Nei gruppi carismatici ci sono tantissimi giovani: cantano, pregano ed ognuno esprime la propria fede in maniera molto libera. Purtroppo spesso questi giovani non si integrano all’interno delle loro comunità di base.

E le ragazze?
Quelle che hanno la fortuna di andare a scuola non sono molte: le ragazze sono penalizzate perché non hanno gli stessi diritti dei ragazzi. Ad esempio, in una famiglia dove ci sono maschi e femmine sono i maschi che hanno più diritto di andare a scuola, se le ragazze sono in grado di far da mangiare fanno da mangiare, se di far figli si sposano: il loro destino è già tracciato. A Bukavu, nelle zone di periferia, dove le ragazze non vanno a scuola, le suore del mio ordine hanno fondato un centro di alfabetizzazione per 350 ragazze dai 12 ai 18 anni, l’età in cui non le prendono più alla scuola elementare. Pagano mezzo dollaro al mese e fanno tre anni di alfabetizzazione frequentando tre volte la settimana, gli altri giorni lavorano. Poi abbiamo organizzato una scuola di perfezionamento di cucito e in due anni diventano capaci di cucire un vestito. A queste attività affianchiamo molta educazione alla vita familiare per prepararle al matrimonio.

Prima hai detto “le suore del mio ordine”. Parlaci un po’ della tua vita religiosa…
Sono responsabile delle suore della mia congregazione in Africa. In Congo per ora abbiamo due comunità. Nella mia siamo in sette: io sono la più vecchia, poi ci sono due suore congolesi e una burundese, che è a sua volta formatrice di tre giovani postulanti, due burundesi e una congolese. Cercare di formare le sorelle africane con il discernimento, con la selezione e con la prova, è un aspetto molto bello del nostro impegno.

Alla periferia di Bukavu abbiamo un’altra comunità, di otto sorelle: due italiane, una è ostetrica, l’altra dirige una scuola materna di 120 bambini e nello stesso tempo è la madre maestra di due novizie congolesi che dovrebbero emettere i voti fra due mesi. Ci sono, inoltre, due suore congolesi, una dirige il foyer social e un’altra insegna religione e fa animazione spirituale in una scuola media di più di duecento ragazzi.
Ci sono, poi, due burundesi: una suora che sta terminando gli studi e una giovane che dovrebbe iniziare il postulantato.

Quindi le nostre comunità sono un po’ variopinte, caratterizzate da un aspetto apostolico abbastanza forte; oltre agli altri impegni, seguiamo i bambini attraverso le adozioni a distanza, ma con i nostri metodi: siamo un po’ contrarie alle adozioni individuali, al sistema di mandare la foto e le letterine; ci stiamo battendo perché gli adottanti facciano adozioni non di singoli bambini ma di scuole, in modo da aiutare tutti quelli che non hanno i mezzi per avere accesso alla scuola.

Un’altra cosa bella che stiamo facendo, forse la più importante, è legata al carisma della nostra famiglia religiosa. Noi Dorotee siamo nate nel 1838 per essere l’anima di un’opera laicale, l’Opera di Santa Dorotea, fondata da un prete bergamasco, don Luca Passi, nel 1815; l’Opera ha dato l’ispirazione per la nascita dell’Azione cattolica in Italia. Quest’opera - col tempo era scomparsa - stiamo cercando di farla rinascere lavorando con dei laici (i Cooperatori) che hanno come impegno l’educazione umana e cristiana degli adolescenti, con una particolare attenzione ai bambini abbandonati, alle ragazze madri, ai ragazzi con problemi seri.

I Cooperatori vivono la loro missione non solo a livello di parrocchia, ma anche nei loro quartieri e nel loro ambiente di lavoro. Questo è il nostro servizio specifico: essere l’anima dell’Opera, animando i Cooperatori perché vivano con impegno la loro fede e diano testimonianza della loro vita cristiana. L’amicizia con i bambini è la modalità tipica del ministero dei Cooperatori: alcuni li accolgono nella loro famiglia come figli adottivi. Le educatrici del nostro foyer social, di cui parlavo, sono delle Cooperatrici dell’Opera, quindi hanno questo spirito di essere come delle madri e delle vere educatrici di queste ragazze. Ce ne sono alcune che hanno accolto ed aiutato ragazze violentate (questa è purtroppo una grossa piaga nella nostra zona!); poiché alcune di queste si sono trovate incinte, le hanno accompagnate durante la gravidanza e dopo il parto e sono diventate come delle seconde madri.

È presente il problema delle sette?
Purtroppo le sette fioriscono come funghi, in fondo sono l’espressione del vuoto e del malessere che c’è nella nostra società, dal punto di vista amministrativo, economico e politico. Tante persone pensano di trovare in esse una risposta ai loro numerosi bisogni, infatti queste sette promettono mari e monti ed hanno molti soldi…
A mio avviso se ci fosse un po’ più di ordine e un po’ più di giustizia, voglio dire se lo Stato pagasse gli insegnanti, se il bambino avesse da mangiare, se i malati avessero i soldi per curarsi, le sette avrebbero meno presa.
Ci puoi raccontare la storia di un giovane che frequenta i vostri centri?
Ultimamente stavamo parlando con i giovani di correzione fraterna. Durante un incontro, un ragazzo chiede che cosa bisogna fare quando vieni insultato da un amico a cui fai notare il suo comportamento non buono. Uno degli animatori, che lavora per un’organizzazione di avvocati (Aprodeped) che ha come obiettivo di difendere i “senza voce”, racconta quello che gli è capitato qualche giorno prima. In piena notte viene svegliato dalle grida disperate di una donna. Intuisce che quella donna se la sta passando brutta e parte con la moglie per andare a vedere cosa sta succedendo. Bussa e non gli aprono. Pensa che non possono lasciarla così - forse il marito la sta facendo fuori - allora va a chiamare un militare: lui che è abituato ad intervenire ed ha un’arma, può darsi che dia una mano. Bussano di nuovo. Niente. Provano a sfondare la porta ma non ci riescono. Il militare dice: “senti, è mezzanotte, mi spiace ma io vado a dormire”. A questo punto ritorna anche lui a casa - non è prudente lasciar soli, in piena notte, i suoi cinque bambini ancora piccoli - ma non si da pace. Gli viene in mente che la casa dove la donna continua a gridare appartiene ad uno che non abita molto lontano. Lo va a chiamare e gli spiega il caso, facendogli presente che come proprietario ha voce in capitolo. Tutti insieme riescono finalmente ad obbligare quello che sta picchiando la moglie ad aprire la porta. Si presenta inferocito con un bastone in mano, la donna approfitta della porta aperta per scappare. Trovandosi di fronte a questo tizio che lo vuole picchiare, il nostro amico gli dice: “Tu pensi che con questo modo di fare sei più uomo di me?”. Lo lascia con questo messaggio e se ne torna a casa. Dopo otto giorni, passando in un bar, uno gli dice di sedersi perché vuole offrirgli qualcosa. È l’uomo che quella sera aveva picchiato la moglie. Gli dice: “Io la devo ringraziare, perché quella sua parola mi è rimasta impressa e mi ha permesso di andare a chiedere scusa a mia moglie e di riportarla a casa”.

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