R. D. CONGO: La frontiera di Bukavu

Pubblicato il 31-08-2009

di sandro


Intervista a suor Lucia Sabbadin, dal 1988 missionaria a Bukavu, città della R. D. Congo lungo la difficile frontiera con Rwanda e Burundi: un pezzo di Africa, teatro di un conflitto mondiale.

a cura della redazione

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 Chi è sr. Lucia Sabbadin
Suor Lucia Sabbadin è una missionaria (delle suore Dorotee di don Luca Passi), attualmente responsabile della Delegazione africana. Da anni lavora come medico internista all’Hôpital général di Bukavu, capoluogo del Sud-Kivu, regione della Repubblica Democratica del Congo, lungo la difficile frontiera con il Rwanda e il Burundi. L’Abbiamo conosciuta all’Arsenale della Pace, venuta per incontrarsi con il gruppo Re.Te. - Sermig. La sua lunga testimonianza (che pubblichiamo in versione integrale) ci aiuta a cogliere le speranze e le difficoltà di vita dei giovani congolesi, nella realtà di un Paese tormentato dalla miseria e da un’orrenda guerra combattuta per le enormi ricchezze minerarie depredate dai Paesi “che contano”.

Parlaci un po’ di te…
Sono di Castelfranco Veneto. Vengo da un’esperienza familiare un po’ particolare: ero la prima di quattro fratelli quando a cinque anni sono rimasta orfana; papà si è risposato, poi è morta anche la seconda mamma. Mi sentivo orientata alla vita religiosa con il sogno di andare a servire i poveri in Africa e avevo quindi deciso di studiare medicina.

Dopo la laurea le mie superiore mi hanno detto che ero troppo giovane per andare in missione e quindi ho deciso di specializzarmi in cardiologia: “curerò le suore anziane!”. Il Signore ha voluto che la situazione si sbloccasse, quindi, terminata la specializzazione, mi hanno permesso di partire per l’Africa.

Sono partita nel 1980 per il Burundi, dove, insieme alle mie consorelle ho lavorato in una zona molto povera a contatto con la gente fino a quando mi hanno espulsa, nel 1987. Ho fatto un’esperienza molto bella come medico, anche se un po’ isolata dagli altri medici: molta medicina di base e preventiva! Sono quindi partita per il Congo, dove dal 1988 lavoro all’Ospedale generale di Bukavu, un ospedale costruito nel lontano 1929.

Quando sono arrivata era in stato di distruzione totale, esistevano dei padiglioni con letti senza materassi; i malati praticamente non c’erano. Dal 1988 affronto tutte le patologie che fanno riferimento alla medicina interna; in particolare seguo i malati cardiopatici, ma c’è molto da fare anche per i numerosi malati di diabete, Aids, tubercolosi, ecc.

Oggi il nostro Ospedale ha fatto un vero cammino di “risurrezione”: nel 1992 è stata fondata l’Università Cattolica di Bukavu soprattutto perché, a causa dell’insicurezza, i genitori non volevano lasciar partire i loro figli per andare in una università lontana o in altri Paesi. Per la Facoltà di medicina c’erano i professori, ma non c’era la struttura sanitaria dove far fare il tirocinio. È stato scelto il nostro Ospedale perché si trovava in città; quindi, nel 1995 l’Ospedale, che é dello Stato, è passato in gestione alla Diocesi la quale, “affamata” come tutti gli altri, non ha potuto aiutarci materialmente, ma ci ha permesso, grazie alla sua credibilità, di realizzare un Ospedale dignitoso. Dal ’95, in dieci anni, abbiamo progressivamente ristrutturato i vari padiglioni e organizzato servizi diversificati. Due anni fa abbiamo creato un centro di riabilitazione nutrizionale per la malnutrizione grave che non può essere trattata dai centri di sanità di base.

Attualmente l’Ospedale ha 500 posti letto, ma ne stiamo creando altri. Ci sono una trentina di medici, di cui otto specialisti: una vera ricchezza per un ospedale africano! I medici appena laureati, che lavorano nei vari servizi, hanno un buon livello di preparazione e sono molto motivati. L’ospedale è abbastanza attrezzato: stanno aumentando anche le possibilità diagnostiche: si fanno ecografie, la radiologia è abbastanza buona, arriverà presto anche l’apparecchiatura per la TAC.

Inoltre, per evitare che la gente vada a farsi curare in Kenya, pagando fior di quattrini, abbiamo creato un reparto “privato” in modo che i pochi che hanno i soldi non li portino altrove, ma possano aiutare la grande maggioranza dei malati, indigenti.
L’ospedale, infatti, deve sostenersi con le sole rette pagate dai malati; le fatture sono spesso elevate perché i malati arrivano quasi sempre in ritardo e in condizioni veramente disastrate.

Quando qualcuno si ammala passa dapprima nei piccoli centri, quindi entra nelle case di preghiera, spesso cerca di farsi esorcizzare pensando di avere il demonio, quindi, quando arriva all’Ospedale è in condizioni gravissime. Penso al diabete, che è un vero flagello nella nostra regione, diffusissimo, che colpisce spesso più membri di una stessa famiglia. Molti non hanno i sette dollari per comprarsi il flacone di insulina; così, quando entrano in coma diabetico finiscono in sala di rianimazione anche per due settimane e non se la cavano con meno di 100 dollari.

La nostra lotta è quella di permettere a questo Ospedale di realizzare la sua vocazione di ospedale universitario, ma offrendo un’attenzione speciale verso i tanti poveri della regione, poter essere accessibile a tutti e curare in maniera adeguata con costi relativamente bassi. All’interno dell’ospedale esiste un servizio sociale, che funziona ormai da tanti anni. È una vera ancora di salvezza, molto importante oggi, in questa situazione di guerra e di insicurezza; molte persone scappano dalle loro case, lasciano le zone rurali e dopo centinaia di km percorsi a piedi, finiscono a Bukavu in condizioni pietose.

 Il malato che non ha parenti o amici che lo possano assistere viene depositato all’ospedale e seguito dal servizio sociale, con il contributo minimo di qualche dollaro. Questo settore sociale funziona grazie ad una suora argentina, un po’ alla sottoscritta e ad altri missionari. Un’altra particolarità del nostro Ospedale è che dà il ricovero e le cure ai malati in fase terminale o pre-terminale, soprattutto per l’Aids, quando gli altri ospedali li mettono alla porta perché ormai non c’è più niente da fare.

Perché è necessario un reparto nutrizionale?
Il numero di malnutriti è molto alto, soprattutto tra i bambini, proprio perché la gente deve lasciare i propri campi per non cadere in mano al nemico ed essere uccisa, e quindi si trova a non avere quegli alimenti di base che di solito ha dalla propria terra: un po’ di manioca, di farina, di fagioli, di verdura come il “lengalenga”, un tipo di spinaci.

I malnutriti vengono soprattutto da zone dove la gente scappa da casa, e quindi dopo pochi mesi di carestia si ammalano. Poi ci sono famiglie in cui nessuno ha un lavoro oppure hanno condizioni sociali molte problematiche: il padre non esiste oppure è alcolizzato per cui i bambini finiscono in condizioni di malnutrizione molto grave.

Ci sono in tutte le parrocchie centri di sanità di base e centri di recupero nutrizionale, ma il problema ancora una volta è “chi dà da mangiare?”: ci sono i protocolli di trattamento e le competenze, ma manca la materia prima. Il nostro ospedale tratta i malnutriti nella fase acuta; il bambino malnutrito con anemia molto grave lo curiamo per un mese o due, poi lo rimandiamo nei centri periferici dove continua ad essere assistito.

Il Centro nutrizionale ha una cinquantina di posti letto, riservati ai bambini; gli altri malnutriti restano in medicina interna, ma ricevono un supplemento alimentare. C’è da precisare che nei nostri ospedali non si dà da mangiare ai malati, sono i familiari che devono ogni volta portare da mangiare. La cosa bella a Bukavu, città di 800.000 abitanti, è che ogni mattina i cristiani vengono con le loro bacinelle di riso, di pasta e di fagioli e passano attraverso i vari reparti per sfamare chi è abbandonato. Questa è una formula di solidarietà stupenda, che fa sì che all’ospedale nessuno soffra la fame.

La situazione a Bukavu
È molto grave, negli Ospedali oltre ai malati cronici di AIDS, tubercolosi, infezioni intestinali, diabete, lebbra, si sono aggiunti i feriti da arma da fuoco o da taglio, spesso orribilmente mutilati. L'emergenza è assoluta. C'e' bisogno di tutto, in particolare di viveri e di medicine; lo Stato da anni ormai non paga il personale e non dà alcuna forma di aiuto. Il numero dei malnutriti aumenta sempre più. All’Hôpital général si cerca di assicurare almeno un pasto al giorno, per sopravvivere: sono le mamme che ogni mattina scendono dalle colline con grandi bacine di riso o di manioca per sfamare i malati.

Come è ora la situazione di transizione in Congo?
Dal 1988 ne ho viste di tutti i colori: nel ’94 abbiamo avuto l’esodo di più di un milione e duecentomila Rwandesi, a Bukavu ce n’erano più della metà. Forse è stato il momento più drammatico della mia storia di medico. Nei primi mesi, prima che fossero creati i campi profughi, la gente dormiva sulle strade; ci sono state in quel periodo quattro epidemie molto gravi: colera, dissenteria bacillare, meningite e morbillo.

Abbiamo avuto una vera ecatombe: ci eravamo organizzati per seppellire i morti dignitosamente, ognuno nella propria fossa. È stato un momento molto duro. Poi si sono organizzati i campi profughi vicini sia alla frontiera che alla città. Nel ’96 questi campi sono stati smantellati.

A Bukavu abbiamo vissuto momenti terribili; io sono stata evacuata il giorno che la città è stata presa dai Rwandesi; il nostro vescovo, Monsignor Munzihirwa, è stato ucciso quello stesso giorno (Christophe Munzihirwa Mwene Ngabo, gesuita, chiamato anche il "Romero d’Africa" per la coraggiosa testimonianza a favore della pace, è stato ucciso il 29 ottobre 1996 – n.d.r.). Poi, nel ’98, c’è stato un nuovo attacco da parte del Rwanda, ancora un’altra guerra. Nel 2000 hanno ricominciato altre forme di guerra e di aggressione civile; lo scorso anno, il 26 maggio 2004, eravamo di nuovo sotto i bombardamenti, lo siamo stati per dieci giorni, la cosiddetta guerra dei dieci giorni di Bukavu. Insomma, siamo sempre in prima linea!

Bukavu, però, è un po’ la coscienza di tutto il Paese. È una città universitaria; inoltre, grazie alla presenza dei missionari, i Padri Saveriani in particolare, c’è tutto un programma di educazione del popolo. Attualmente anche il resto del Paese sta prendendo coscienza che è importante stare uniti per camminare verso un po’ di democrazia.

Il guaio è che noi, essendo vicini al confine con il Rwanda, siamo quella fetta di torta che i Rwandesi da anni vorrebbero avere. Purtroppo all’inizio i congolesi, che per natura sono molto accoglienti, non si rendevano conto del rischio che correvano e si lasciavano “comprare” con un po’ di dollari e qualche promessa. Ma adesso sono molto più “agguerriti” dal punto di vista della coscienza. La gente spera che queste benedette elezioni prima o poi abbiano luogo per poter cominciare a parlare di ricostruzione del Paese.

Che premesse ci sono perché possano avvenire queste elezioni?
Sulla carta è scritto che dovrebbero avvenire a fine giugno 2005, ma il Paese non è pronto, ci sono tutte le questioni di tipo logistico per preparare le liste elettorali e i seggi, inoltre bisogna preparare gli elettori per evitare che queste elezioni diventino una truffa, perché, a causa di Mobutu e di tutto quello che è successo dopo, da qualche decina di anni non esiste più alcuna etica. Il modello ideale del capo, in Congo, è quello di chi approfitta della situazione per riempirsi le tasche.

Ci sono pochi furbi che vivono come grandi imperatori e poi c’è la massa di gente che vive in situazione precaria; per esempio gli insegnanti non sono pagati dallo Stato ma dalla miseria del povero. Tanto per chiarire la situazione: l’anno scorso i vescovi hanno dichiarato pubblicamente che i genitori, a partire dal primo gennaio 2005, non avrebbero più pagato la scuola dei loro bambini, perché questa responsabilità toccava allo Stato. Fino al dieci febbraio, conclusione del semestre, gli insegnanti hanno portato pazienza per non penalizzare i bambini, poi hanno fatto uno sciopero generale e marce di protesta, ma non hanno ottenuto niente. Per non far perdere l’anno ai bambini, hanno ripreso la strada della scuola e i genitori hanno continuato a pagare. Apparentemente è stata una sconfitta, in realtà è stato un primo passo verso la coscientizzazione del popolo. Quello che succederà il Signore solo lo sa, ma noi speriamo che si possa andare progressivamente verso un po’ più di giustizia.

Esistono dei partiti politici, raggruppamenti o c’è un partito unico?
Ci sono e si stanno formando, ma il problema è che purtroppo in Africa quello che conta è l’etnia e ognuna ha i suoi candidati. È difficile anche solo far capire che un candidato è migliore di un altro, perché in termini di oratoria sono tutti dei “professori” e riescono ad abbindolare la gente. Però bisogna dire che la società civile - e la Chiesa in particolare - sta facendo un grande lavoro di sensibilizzazione e di preparazione del popolo. Penso che all'interno delle università e delle comunità cristiane ci sia una crescita politica, un po’ come è successo in Madagascar dove, in fondo, è stata la Chiesa che ha sostenuto il presidente ora in carica e che sta dando prova di aver preso a cuore il destino e l'avvenire del popolo.

In ambiente universitario, quali sono i sogni dei giovani e le reali speranze di realizzarli?
Anche in Congo, come negli altri Paesi, l'ambiente universitario è un po' caratterizzato dalla protesta, ma nello stesso tempo è aperto a progetti nuovi; gli universitari, oggi, attraverso l’uso di internet sono a conoscenza delle realtà degli altri Paesi, quindi mal sopportano certe forme di autoritarismo. Poi però concretamente non hanno i mezzi per protestare perché in Africa, se uno alza la testa, ottiene come risposta la violenza: ad esempio, se gli studenti tentano una marcia di protesta per rivendicare i loro diritti o un po’ di giustizia, immediatamente arrivano i militari e c'è da ringraziare il Signore se non muore nessuno.

Esistono dei movimenti, ma dovrebbero essere coordinati in maniera intelligente dalla società civile. Diciamo che, attualmente, grazie ad internet, i giovani si tengono in contatto, conoscono la situazione di tutta la Repubblica Democratica del Congo, di quello che succede a Kinshasa, anche se si è a 2000 km di distanza da Bukavu. Fino a due anni fa eravamo abbandonati da tutti: strade percorribili non ce n’erano e non c'erano neanche collegamenti aerei, inoltre, il Paese era diviso (in una parte orientale controllata dai ribelli e una occidentale in mano alle truppe di Kabila – n.d.r.).

Noi della zona di Bukavu eravamo “i ribelli”, considerati da quelli di Kinshasa come dei nemici; numerose famiglie di cui il padre era a Kinshasa e il resto a Bukavu non potevano riunirsi, perché si sarebbe dovuto fare il giro dell'Africa, e se uno arrivava a Bukavu e aveva il timbro di Kinshasa, lo mettevano in prigione perché dicevano che era una spia. Ora, grazie anche ai moderni mezzi di comunicazione, quello che succede in un posto è saputo in brevissimo tempo da tutte le parti, quindi c'è come una coscienza di popolo che si sta creando, cosa impossibile fino a poco tempo fa. Ci sono segni di speranza, però c'è ancora molta strada da fare!

[ continua ]



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