R.D. CONGO: Voci dall’Italia

Pubblicato il 31-08-2009

di Elena Goisis

Di antica data, anche se poco appariscente, la presenza di cittadini congolesi in Italia. Alcuni di loro, giunti dopo una fuga pericolosa, hanno perso ogni contatto con la famiglia. Altri sono qui per lavoro o studio e tornano periodicamente al loro Paese. Un fattore che da solo dice quali contrasti abitino questa terra. Ne abbiamo ragionato con alcuni di loro.

di Elena Goisis

PROFUGHE PERCHÉ
Una delle conseguenze quasi automatiche di un conflitto è la fuga delle popolazioni coinvolte verso terre più sicure. Non solo nello stesso Paese, ma spesso anche in Paesi lontani. Come è accaduto alle tante donne congolesi approdate nelle accoglienze dell’Arsenale della Pace in questi ultimi dieci anni. Le loro sono sempre storie di grande sofferenza, spesso complesse e difficili da comprendere anche per le autorità italiane che dovrebbero raccoglierle e valutare i requisiti per la richiesta di asilo politico. Storie nelle quali si sommano persecuzione per motivi di opinione e politici, e violenze sessuali - che purtroppo non mancano quasi mai.
Di frequente a mettere a repentaglio la loro vita è stato l’essere figlie, sorelle o mogli di militari, funzionari o addirittura autisti e cuochi di uno dei regimi che si sono succeduti al governo del Paese. I loro racconti svelano retroscena di gravi mancanze di libertà, come le sparizioni di oppositori politici e sostenitori del principale candidato sconfitto, Jean-Pierre Mbemba, in occasione delle elezioni del 2006: le prime elezioni democratiche degli ultimi 45 anni, presentate all’occidente come quasi esenti da brogli e violenze. Altre volte è il coraggio e l’impegno pubblico in prima persona ad aver fatto di loro dei bersagli.
Proprio in occasione di una manifestazione pacifica di protesta contro i brogli elettorali del 2006 è stata imprigionata Mami; si è salvata perché un guardiano le ha rotto un piede con il calcio del fucile e mentre era in ospedale è riuscita a fuggire. Marie-Noel invece ha pagato la professione di giornalista presso RTMV, il media di Sauvons le Congo, movimento d’opposizione ora sciolto creato dal pastore Kutino, attualmente in carcere.
profughi dintorni di Goma
Dura anche la sorte di Rose: dal 2006 nel Movimento per la Liberazione del Congo (MLC) di Kinshasa, con altri giovani organizzava raduni e sensibilizzava gli studenti sulle irregolarità del governo al potere. Arrestata dalle guardie presidenziali che volevano da lei informazioni sul Movimento, ha passato numerosi mesi in una cella senza letti e senza servizi con una decina di altre donne; venivano picchiate sulla schiena, colpite da luce intensa agli occhi per ore con torce elettriche (Rose oggi ha problemi di vista) e poi violentate. Una lista di storie che potrebbe continuare, ma è già sufficiente a darci una certezza: le violenze in Congo non hanno cause etniche, bensì di potere (politico, economico o sociale, poco cambia).
VITA A KINSHASA
Una tesi confermata da Marcellin Gupa, in Italia da un anno per studiare giurisprudenza. Nato e cresciuto a Kinshasa, lui non conosce neppure i nomi delle varie tribù congolesi, né sente differenze all’interno del suo popolo. Se problema c’è stato, si è creato tra congolesi e persone di origine ruandese quando questi ultimi hanno attaccato il potere di Laurent Désiré Kabila, padre dell’attuale presidente, nel 1997/98: i suoi soldati fermavano le persone per strada, e chi era ruandese rischiava la vita. Lui stesso è stato fermato perché fisicamente somigliante ad un ruandese: in assenza di carte d’identità, ha dovuto provare dov’era nato, chi erano i suoi genitori e che parlava il lingala (la lingua di Kinshasa).

Un problema che oggi sembra superato, mentre non è superata la distanza tra la gente e la politica. I giovani della sua età non si occupano di politica - ride al solo pensiero -, sembra loro di perdere tempo, visto che la situazione non cambia mai: la maggior parte dei candidati alle ultime elezioni era in politica fin dai tempi di Mobutu (cioè due dittature prima)! Una o due solo le persone nuove. Del resto occuparsene rimane rischioso: a Marcellin Gupa non risulta che ci siano organizzazioni che promuovono scuole di politica per i giovani. A suo parere, anche le Chiese (che, ad esempio, in Sierra Leone hanno un ruolo attivo nel processo di democratizzazione) hanno paura che fare politica sia letto come porsi in opposizione al governo, e quindi evitano.

profughi  dintorni di Goma Politica a parte, la sua vita sembra sia trascorsa abbastanza tranquilla, le notizie sulla guerra nell’est del Paese gli arrivavano solo via televisione. Kinshasa, del resto, è a ca. 2.000 km dal Kivu, e la vita, così come la lingua, nelle due zone è molto diversa. Solo chi proviene dall’est sa cosa significhi davvero la parola guerra.
È il caso di Rachel. A inizio ottobre 2008 lei e il marito sono stati prelevati da casa a Kinshasa e inviati al fronte, nel Kivu, in una zona in cui i ribelli stavano facendo razzie tra i civili. Il marito, arruolato nell’esercito regolare, è scomparso da un giorno all’altro. Lei, mentre si recava al lavoro di infermiera scortata dai soldati, è stata rapita da un gruppo di ribelli. Uno di questi l’ha tenuta sequestrata per diversi giorni in un tank, sottoponendola a violenza sessuale. A metà dicembre, inspiegabilmente, l’ha liberata affidandola ad un uomo che l’ha aiutata a fuggire.
IDENTITÀ CONGOLESE
Anche nell’est però il conflitto ha poco a che vedere con le questioni etniche. Ad affermarlo categoricamente è Désiré Thasinga, vicepresidente dell’Associazione Congo Help di Torino, ingegnere di Bukavu (capitale del Sud Kivu) in Italia da otto anni. Torna ogni anno al suo Paese e, come tutti coloro che sono cresciuti all’est, da tempo ha smesso di pensare che la guerra sia la soluzione dei problemi. Così investe il tempo libero dal lavoro nel sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione del suo Paese, nella speranza che l’attenzione dei media smuova le coscienze di chi può incidere. Abbiamo ripercorso con lui l’origine di quella che noi definiamo etnia.
All’inizio - spiega Thasinga - c’è una famiglia con un antenato. Quando tutte le persone figlie dello stesso antenato vivono nello stesso luogo creano una coesione, poiché hanno stessa lingua e stesso antenato. Si crea così il clan. Tutti i clan che hanno stesse usanze, lingua, costumi formano una tribù. La tribù è ciò che voi chiamate etnia, e in Congo ce ne sono più di 400. Nella stessa regione le tribù, pur avendo dialetti diversi, sono legate tra loro dalla lingua regionale. Oggi il Congo è diviso in quattro lingue regionali: swahili all’est, lingala al nord e nella capitale, kicongo al sud e sud-ovest, chiluba al centro-sud. Il francese è poi la lingua dell’amministrazione congolese, studiata a scuola, che permette la comunicazione fra persone di diversa provenienza”.

Le quattro lingue regionali, però, sono parlate anche negli Stati al confine con il Congo. Questo perché quando gli ex colonialisti hanno stabilito i confini nazionali, non hanno tenuto conto dei regni congolesi preesistenti. La R.D. Congo ha dunque amalgamato quattro entità diverse. Ciò nonostante, questo non è mai stato causa di problemi.

profughi dintorni di Goma

Ci sono stati tentativi - ricorda Thasinga - da parte di alcuni leader congolesi del passato di creare delle secessioni, invocando presunte autonomie su basi linguistiche e tribali. In realtà si è sempre trattato di tentativi pilotati dall’estero per controllare poche regioni ricche di risorse economiche dividendole dalle altre regioni. I belgi hanno tentato di farlo con il Katanga, ricco di rame e cobalto, come adesso all’est, dove ci sono coltan, oro e diamanti, qualcuno tenta l’avvicinamento con il Ruanda. Ma questi tentativi sono sempre falliti, così come quelli di creare uno Stato federale, prova del fatto che non avevano riscontro nel sentire della popolazione”.

Addirittura si può riconoscere tra i pochi meriti del regime di Mobutu quello di aver contribuito a creare una unità nazionale, contrastando appunto le spinte secessioniste e favorendo nel popolo congolese il senso della propria identità. Amministratori di una regione venivano spostati appositamente in un’altra regione per favorire l’integrazione della popolazione; c’era molto traffico umano e non era considerato un problema spostarsi a lavorare in un’altra zona imparandone la lingua.

BAMBINI SMOBILITATI
Guardando al futuro, Thasinga esprime infine una preoccupazione particolare: quella per le migliaia di ex bambini soldato che, lasciati a se stessi dalla smobilitazione in corso di alcune milizie ribelli, stanno iniziando a vagare per il Paese in cerca di un futuro. Le milizie, infatti, quando la smobilitazione è iniziata nello scorso mese di marzo, erano già avanzate verso Kinshasa con l’intento di prendere la capitale, e lungo la strada si ingrossavano portando via nuovi bambini dai villaggi che attraversavano. Con la smobilitazione questi bambini si ritrovano spesso a 2.000 km da casa, in una regione di cui non conoscono la lingua.
profughi centro don Bosco

La loro forza era l’arma, i vestiti militari. Senza tutto ciò sono ora semplicemente dei bambini in mezzo ad una strada. Rapiti a 7, 10 anni e coinvolti per cinque o più anni in una guerra, sono ora abbandonati a se stessi. Hanno perso l’infanzia, non hanno frequentato la scuola, sono cresciuti in una situazione di continua incertezza, non hanno più riferimenti, spesso non riconoscono più i loro villaggi o non sono accettati dai familiari. Formati in un ambiente senza regole, diventa difficile reinserirli a scuola, magari a 17-20 anni. Occorre pensare per loro a meccanismi di apprendistato diversi da quelli ordinari. Un problema che inizia a porsi ora, e che andrà affrontato perché un’intera generazione non vada persa.

Elena Goisis
da Nuovo Progetto maggio 2009

Le foto sono tratte da:
Fotoreportage di Albino Pellegrino (volontario del VIS)

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