Ricordando "the fight": Muhammed Alì

Pubblicato il 31-08-2009

di Alessandro Moroni


L'8 marzo di 37 anni fa Muhammed Alì affrontava Joe Frazier. La storia di un personaggio discusso che pagò con il carcere il rifiuto di essere arruolato per la guerra in Vietnam.

di Alessandro Moroni


L'8 marzo 1971 si celebrò a New York un evento sportivo che per l'attesa generata, le pesanti implicazioni extrasportive e la memoria indelebile che ha lasciato può essere annoverato tra i più grandi di sempre. Al Madison Square Garden, tempio pugilistico mondiale, andò in scena il match tra il campione del mondo in carica Joe Frazier e un personaggio già leggendario e destinato a rimanere l'icona pugilistica assoluta: Muhammed Alì, all'anagrafe Cassius Clay, noto con un'infinità di soprannomi, dal "labbro di Louisville" a "il più grande".
La vicenda umana e sportiva di Alì, afroamericano del Kentucky nato nel 1942, è emblematica della commistione tra sport e politica. Curioso il fatto che proprio lui sia stato uno dei pochi pugili di colore a non avere fatto i conti con un'infanzia "di strada": la sua famiglia non gli ha mai fatto mancare l'essenziale e l'approdo alla boxe è stato più lo sbocco naturale di una passione che non, come per tanti altri, la ricerca spasmodica di riscatto da una condizione di miseria disperante.
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Già da dilettante si espresse al massimo: alle Olimpiadi di Roma del 1960 il 18enne Cassius Clay conquistò la medaglia d'oro dei pesi massimi, lasciando presagire un futuro radioso tra i professionisti.
Ma ecco l'incrocio fatale con il destino: di ritorno a casa, il giovane Cassius doveva amaramente constatare che il titolo olimpico non era affatto garanzia di conseguita parità sociale nei confronti dei suoi connazionali di pelle bianca.
Respinto da un locale il cui accesso era proibito alle persone di colore, il neo-olimpionico avrebbe sfogato la profonda amarezza gettando la medaglia d'oro appena conquistata da un ponte sul fiume Hudson.

Vero o leggendario che sia, l'episodio ha segnato indelebilmente il destino di un uomo, creando le premesse perché un grande pugile diventasse anche un personaggio epocale. Ben presto Cassius Clay si sarebbe legato alle frange più estreme dei movimenti fomentati dalle tensioni razziali di quegli anni, convertendosi all'islam e aderendo alla setta dei "musulmani neri", caratterizzato da posizioni polemiche fino ai limiti della violenza predicata, se non praticata, nei confronti di tutto ciò che poteva rappresentare l'establishment americano.

Nel frattempo la sua carriera professionistica decollava: il mondo pugilistico internazionale assisteva all'esplosione di questo peso massimo dalle caratteristiche uniche, alto e muscoloso ma di aspetto aggraziato, potente ma agilissimo sul ring, fedele al motto "danza come una farfalla e pungi come un'ape". Prendeva corpo nell'immaginario collettivo l'idea del pugile-ballerino, sfuggente, imprevedibile, velocissimo e implacabile.

Nel 1964 ottenne il diritto di sfidare il campione in carica, Sonny Liston: pur sfavorito dal pronostico, irretì l'avversario danzandogli intorno per 6 riprese, mandandolo poi K.O. nel corso della settima. Fu subito chiaro che la corona dei pesi massimi era passata a un campionissimo: in quello che fu il momento più brillante della sua carriera difese il titolo 8 volte e per tre anni non apparve all'orizzonte nessuno in grado di oscurarne la fama.

Intanto il personaggio si manifestava in tutte le sue caratteristiche di scomodità: rinnegato quello che chiamava il "nome da schiavo" con il quale risultava registrato all'anagrafe e ribattezzatosi Mohammed Alì prese a sfruttare le proprie straordinarie doti di comunicatore per calamitare l'attenzione del pubblico su se stesso e il proprio "razzismo alla rovescia", con il quale rivendicava la superiorità della razza nera su quella bianca e rifiutava qualsiasi ipotesi di integrazione e accomodamento. Fece leva sull'ineguagliabile istrionismo che lo caratterizzava, etichettando con l'epiteto di "Zio Tom" (emblema letterario del nero americano condiscendente al ruolo subalterno nel quale lo costringeva il potere dei bianchi) qualsiasi altro pugile di colore che non condividesse le sue idee estreme e la sua battaglia ideologica.

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Va ricordato come nell'America degli anni '60 le tensioni razziali abbiano toccato un vertice mai più eguagliato: accanto a movimenti non violenti come quello capeggiato dal reverendo Martin Luther King se ne affermarono altri caratterizzati dall'odio più viscerale; come quello di Malcolm X, al quale Muhammed Alì aderì, almeno per qualche anno.

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Nel 1967, a guerra del Vietnam appena iniziata, Alì, con la famosa frase "nessun Vietcong mi ha mai chiamato sporco negro e io non ho nulla contro quella gente", rifiutò di aderire alla chiamata alle armi. Per inciso, va detto che si sarebbe trattato di un arruolamento del tutto simbolico (perché ovviamente nessuno avrebbe spedito a combattere in prima linea il campione del mondo dei pesi massimi): l'idea era evidentemente quella di sfruttarne l'immagine a fini propagandistici.
Sta di fatto che il plateale gesto di Alì costringeva la nazione - non solo sportiva, a quel punto - ad una presa di posizione dura e senza remissione.
smithcarlos.jpg Muhammed Alì fu privato d'autorità del suo titolo, squalificato a vita, costretto all'inattività; e condannato ad una pena detentiva di 5 anni. Il suo caso fece un incredibile scalpore, trasformando il pugile del Kentucky nel paladino incondizionato dei "liberal" di tutto il mondo, a cominciare ovviamente da chi non si era mai interessato al pugilato in vita sua. Polemiche roventi divamparono tra i fans di Alì e i suoi detrattori: il personaggio non sembrava in grado di suscitare sentimenti diversi dall'approvazione più entusiastica, contrapposta all'odio più viscerale. Presto si sarebbero affermati fenomeni di emulazione nel mondo dello sport: l'anno successivo, il "mitico" 1968, avrebbe visto due velocisti americani di colore, Tommie Smith e John Carlos, inscenare una clamorosa forma di protesta durante la cerimonia di premiazione dei 200 metri all'Olimpiade di Città del Messico, gara per la quale avevano conquistato rispettivamente le medaglie d'oro e di bronzo. (vedi foto a fianco).
La vicenda umana e sportiva di Alì non era certo conclusa: il movimento di opinione che si mise in moto in seguito alla sua squalifica e detenzione dette i suoi frutti. Nel 1969 Alì venne scarcerato, l'anno successivo riottenne il diritto a boxare tra i professionisti e, dopo due incontri di preparazione, eccolo pronto a combattere per riprendersi la corona mondiale.
Si profilava, atteso come nessun altro incontro di pugilato nella storia, "The Fight", il combattimento: e prometteva scintille, perché il pugile che avrebbe difeso il titolo dall'assalto di Alì era un campione "vero".

Joe Frazier non godrà mai della fama imperitura di Muhammed Alì ed il suo nome resterà probabilmente legato soprattutto a quell'incontro e ai successivi, che ancora lo avrebbero visto incrociare i guantoni con "Il più grande".
Ciò non toglie che sia stato un pugile formidabile e che, tra l'altro, proprio nel 1971 fosse all'apice della carriera; mentre su Alì pesavano certamente i 3 anni di inattività forzata, scarsamente compensati dai soli due incontri che aveva potuto sostenere in preparazione al match per il titolo.
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L'evento fu consumato l'8 marzo, in un Madison Square Garden stipato in ogni ordine di posto: i preziosi biglietti vennero contesi fino all'ultimo e molti "alti papaveri" del mondo della politica, della finanza e dello spettacolo rimasero esclusi. Al termine di uno dei match più belli e combattuti della storia della boxe Joe Frazier si impose ai punti, infliggendo a Muhammed Alì la prima sconfitta della carriera, gettando nello sconforto i numerosi fans di quest'ultimo.
Peraltro, il destino avrebbe riservato ad Alì un'altra chance: contro tutti i pronostici, avrebbe riconquistato il titolo 3 anni dopo per poi conservarlo, tra alterne vicende, fino al 1978. Ne sarebbe seguito il ritiro definitivo e la progressiva uscita di scena, resa più crudele dalla malattia che gli avrebbe tolto progressivamente la mobilità.

Muhammed Alì è stato tutt'altro che un personaggio cristallino, anche se eventi recenti, primo fra tutti la maschera di dignitosa sofferenza conferitagli dal Morbo di Parkinson, ha finito col mettere d'accordo amici e nemici facendo di lui un'icona positiva dello sport americano.

Negli ultimi anni si è anche molto prodigato a favore di fondazioni umanitarie. Questo non cancella la sua adesione a movimenti politici dagli intenti e contenuti quantomeno discutibili, né la spocchiosa arroganza con la quale usava umiliare avversari ai quali difettava la sua verve comunicativa (primo tra questi il "povero" Joe Frazier, che lo aiutò anche economicamente negli anni in cui era caduto in disgrazia, per poi sentirsi dare pubblicamente del "gorilla" e dello "Zio Tom" da Alì, quando ormai non aveva più bisogno di lui).

Così come non possiamo dimenticare il cinismo con il quale seppe blandire dittatori sanguinari come Mobutu e Marcos (lo Zaire e le Filippine organizzarono due incontri fondamentali per il rilancio della sua carriera). Ma, se non vogliamo prendere parte ad inopportune "santificazioni" di un personaggio caratterizzato da luci ed ombre, va anche detto che oggi, assuefatti agli atteggiamenti "velineschi" degli sportivi del nostro tempo, in un mondo dove tutto è commercializzazione e mero sfruttamento dell'immagine, fa scalpore pensare che 40 anni fa fosse piuttosto comune imbattersi in campioni dello sport tranquillamente disposti a pagare conti personali salatissimi per la testimonianza delle proAprie idee.

Alessandro Moroni

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