Ripartiamo dal NOI

Pubblicato il 31-08-2009

di Monica Canalis

La nostra stabilità è erosa, oltre che da fattori esterni “avversi” o presunti tali, anche dalla nostra incapacità di vivere al “noi”. Ma l'uomo è fatto per completarsi al plurale.
di Monica Canalis
 
Parlando con la gente, ascoltando il tg, leggendo le statistiche sulla nostra società, ci sentiamo pervasi da un senso di instabilità e di incertezza. Sembra non esserci più nulla di definitivo, nessun appiglio incrollabile, ci sentiamo in balia degli eventi. Soprattutto i giovani risentono di questa condizione, loro che sono nati dopo l’epoca delle ideologie, degli schieramenti e dei blocchi.
Ogni frammento della nostra vita sembra influenzato da questi sentimenti. La famiglia? Perché assumersi il rischio di un impegno che vale per sempre quando non so che cosa mi accadrà domani? Il lavoro? Non esiste più il posto fisso, quindi perché fare progetti di ampia gittata? Il tempo libero? Non posso prendermi impegni, non so dove sarò domani… e poi non ho tempo. La mia comunità? Ma io sono un cittadino del mondo!

Tutto ciò ha un nome: precarietà. Precario è il modo più diffuso di costruire relazioni affettive, precario il nostro rapporto con il lavoro e con la comunità in cui siamo inseriti, precarie le nostre scelte legate all’uso del tempo libero. Attenzione: la capacità di affrontare la vita senza schematismi e rigidità, reagendo ai mutamenti e adeguando il modello sociale ai segni dei tempi, non è necessariamente un male, anzi. Ma assecondare una cultura che relativizza tutto e rende difficile proiettare le proprie scelte oltre l’oggi può essere molto pericoloso perché l’oggi passa in fretta e un orizzonte troppo breve può ingabbiarci e chiudere il nostro sguardo.
Manifestazione
Perché, anche quando ne siamo coscienti, spesso non riusciamo a far fronte a questo senso di precarietà? Forse perché ci ritroviamo da soli ad affrontare questo fenomeno. Quando perdo o cambio lavoro, quando perdo un affetto, quando mi sento sradicato rispetto al contesto, mi sento ancora più precario ed instabile se mi sento solo. E se sono solo, ho più paura, percepisco di più la mia vulnerabilità e fragilità, fatico a cogliere la logica più profonda delle cose, l’eternità di cui sono parte, e mi ripiego, mi rifugio nell’unico punto fermo rimasto: me stesso. Abbiamo il dovere di amare noi stessi e di prenderci cura della nostra vita, ma non siamo forse chiamati ad amare il nostro prossimo così come amiamo noi stessi e quindi a riflettere l’amore che nutriamo per noi verso gli altri, in un binomio inscindibile tra l’io e il tu?

Tante persone, però, vivono sole pur stando insieme.
Oggigiorno le maglie sociali, il tessuto connettivo che ci unisce e tiene insieme sta venendo meno e la disgregazione sociale non fa che esacerbare le conseguenze negative degli eventi tristi che possono capitarci, lasciandoci soli di fronte ai casi della vita. Ma solo gli eroi e gli eremiti possono farcela da soli.

Purtroppo il pensiero unico dominante sembra lanciare un messaggio culturale molto diverso: ciascuno persegua i propri obiettivi puramente personali in una corsa vorace al successo e all’arricchimento, consumi per sé a più non posso, trascorra il proprio tempo e usi i propri soldi per migliorare il proprio corpo, la propria casa, le proprie vacanze… Assistiamo insomma all’ipertrofica crescita dell’IO, del MIO, del QUI, dell’ORA, a discapito del NOI, del NOSTRO, del LÀ, del POI. Siamo considerati individui prima che persone, atomi in una società che è gruppo prima di essere comunità. Preferiamo che i nostri figli diventino campioni di calcio o musicisti prodigio piuttosto che imparino l’abc della socializzazione nei gruppi parrocchiali e agli scouts. Investiamo migliaia di euro per visitare i santuari del turismo e poi magari non sappiamo il nome del nostro vicino di casa. Usciamo anche per anni con una persona, ma non siamo pronti a erodere la nostra libertà personale per farla entrare in modo definitivo nella nostra vita. Una somma di individui non produce una comunità. Tanti io non fanno il noi. Precari
Proviamo a ripartire dal noi, a combattere la precarietà, ma insieme.
La storia che ci precede è caratterizzata da una gloriosa costellazione di conquiste sociali che sono culminate nel riconoscimento, addirittura universale, dei diritti individuali. Il tempo presente forse ci spinge a non indietreggiare in questo percorso, ma a rafforzarlo e consolidarlo con riflessioni e, perché no?, norme che proteggano il noi oltre all’io. Abbiamo più che mai bisogno di solidarietà, di recuperare rapporti fraterni, per non sentirci persi e disorientati, per sentirci parte di una storia, di una comunità, di un’eternità. Abbiamo bisogno di dire Padre nostro, Padre di tutti, mio e tuo e nostro. Abbiamo bisogno di scegliere liberamente di stare insieme, nonostante i limiti, le differenze, i naturali conflitti.
Ricostruiamo il noi, riscopriamo l’appartenenza a una famiglia umana allargata, che oltrepassa le relazioni sociali ristrette, facciamo entrare gli altri nella nostra vita, sentiamoci responsabili degli altri. Gli altri ci mettono in discussione, danno fastidio, a volte sono insopportabili, ma sono anche la strada più veloce verso la santità e verso il compimento più integrale e maturo dell’io. Facciamoci gli affari degli altri, interessiamoci a ciò che ci accade intorno e allora tutti ci sentiremo un po’ meno precari. Perché, come diceva un antico proverbio russo, “non il contadino da solo va in cielo, ma l’intero villaggio”.

di Monica Canalis
da Nuovo Progetto novembre 2008

Vedi anche:
I cocci della precarietà
CRISI: scegli la tua meta
Salvare il mercato da se stesso
LA STORIA INSEGNA
Economia in pillole

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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