Sei matto a giocare a pallone?

Pubblicato il 31-08-2009

di bruno


Si è conclusa la settima edizione del torneo di calcio «Sportiva-mente» per operatori ed utenti dei servizi psichiatrici del Piemonte: non è tanto importante la cronaca di chi ha vinto, quanto piuttosto una riflessione sui valori della manifestazione.

...di Alfredo Trentalange

Che il calcio esprima un fascino particolare è indubbio, ma c’è ogni volta da sorprendersi per le barriere che riesce ad abbattere. Fra i giochi da bambino, la richiesta di un pallone è fra le più comuni: si può giocare in mille modi, con molte parti del corpo, e nei luoghi più diversi.
È accessibile a tutte le tasche e fa sognare una carriera per uscire dall'indigenza; in certe Nazioni non di rado si gioca per reprimere «i morsi della fame» all'ora di pranzo. Il calcio permette anche alle persone più umili di confrontarsi con quelle più in vista: in campo non vince chi conta di più, ma chi corre di più.
La forza del suo potere socializzante deriva dal fatto che permette a tutti di parlare la stessa lingua. Il calcio è metafora della vita, in campo capita quello che avviene nel quotidiano dell'individuo. Ci si confronta sul terreno di gioco con l'egoismo e l'altruismo di ogni persona: c'è chi cerca di fare gol da una posizione impossibile quando potrebbe passare il pallone ad un compagno meglio piazzato; c'è chi pur potendo segnare una rete preferisce dare la soddisfazione a un compagno, chi simula di aver subito un fallo rotolandosi per terra e chi, invece, ammette l'errore con l'arbitro. C'è chi consola per un calcio di rigore sbagliato come chi schernisce l'avversario.
Storie di calcio…

Marco, ora giovane adulto, ha manifestato il primo episodio psicotico cinque anni fa, concluse un'infanzia e un'adolescenza apparentemente normali. Primo ricovero dopo
due anni, quando non è stato più possibile contenere con terapia a domicilio la sintomatologia e l'angoscia conseguente. Nei ricoveri in Ospedale,
Marco ha frequentato alcuni laboratori per pochi incontri, poiché emergeva una caduta di autostima collegata ai suoi ricordi scolastici. L'unica attività nella quale ciò non accadeva era quella del gruppo calcio, attraverso la quale Marco recuperava sicurezza e capacità di relazionarsi con i compagni, attingendo alla passione per la squadra del
cuore e alla profonda conoscenza delle vicende del campionato nazionale.

Dopo la dimissione è nata quasi per gioco la possibilità di prolungare la partecipazione al gruppo: allenatore nella palestra della circoscrizione con cui si stavano prendendo accordi. Si è impegnato con serietà professionale in questo compito, preparandosi a
trasmettere la tecnica con l'osservazione attenta degli allenamenti «ufficiali».
In questo percorso sembra acquisire sempre più capacità di adeguamento alla realtà,
autoaffermazione, coesione delle funzioni relazionali e di autonomia emotiva.
La sua storia fa riflettere. Gli psichiatri affermerebbero che la palestra ha per lui una funzione di «area transizionale» nella quale, appoggiandosi a figure terapeutiche positive, Marco può sperimentare il funzionamento di un Io più coeso.
A me piace pensare che la palestra vera sia anche una palestra metaforica, dove
la malattia è un pallone che con un calcio vola lontano almeno per un po': se ben lanciato, può fruttare la vittoria personale e della squadra. Oggi Marco ha un
lavoro, ed è sempre disponibile ad aiutare gli altri in una associazione di volontariato.

Giovanni, uno psicotico grave, mi incontra sul campo di calcio per la prima volta. Gli dicono che io sono un arbitro internazionale e lui, ridendo di gusto, risponde:
«Sì, vabbè, e io sono Napoleone!». Luca, che soffre di autismo e di grave depressione,
solitamente non si relaziona con nessuno. Mi riconosce nello spogliatoio e, con enorme stupore del suo terapeuta, anche lui presente, mi chiede perché due anni prima in una
particolare partita abbia dato un rigore contro la sua squadra del cuore, espellendo pure un giocatore.
Potrei raccontare altre storie, tante. Storie di ragazzi cresciuti nell'attesa di diventare grandi giocando a pallone, e di ragazzi che hanno visto la vita farsi gioco di loro stessi.
A Villa Cristina e con l'Associazione di Volontariato A.G.A.P.E. (cfr. Nota in basso) con il nostro gruppo calcio abbiamo sperimentato la sensazione di aprire canali di comunicazione altrimenti ostruiti o non realizzabili a causa della patologia.
Sono cattolico e penso che la Provvidenza si serva anche di questi canali.

Il calcio è stato, nel torneo «Sportiva-mente»
il pretesto per comunicare fra persone attraverso l'organizzazione di una squadra con ruoli ben precisi, dal magazziniere al
presidente, dall'allenatore al capitano: abbiamo percepito soprattutto speranze. Gli arbitri che per volontariato hanno diretto le gare non conoscevano squadre e giocatori
composti da quattro utenti e sette operatori. Sottoposti ad un semplice test, gli arbitri hanno dato tutti risposte inquietanti e sorprendenti. Alla richiesta di distinguere
fra operatori e utenti li hanno confusi clamorosamente. Troppo spesso, quando ci sentivamo in dovere di dire a noi stessi che quella persona, paziente ricoverato, non ce l'avrebbe fatta a giocare a pallone ci siamo sbagliati. Questo errore è la nostra gioia più grande. Abbandonati i modelli psichiatrici, ci siamo accorti che i ragazzi, e noi con loro, gioivano nel mettersi in gioco, nel rivedersi nei filmati delle partite, nello schierarsi a centrocampo, durante l'appello dell'arbitro nello spogliatoio.
Il sentirsi parte integrante ed utile alla squadra cancellava le delusioni patite, ci confermava nelle attese e rafforzava nella speranza di un futuro più sereno, fatto
di solidarietà e giustizia. Tutti ci sentivamo protagonisti, considerati persone, attori di uno spettacolo che era la vita stessa: calciatori.
Alfredo Trentalange
Uno dei maggiori arbitri italiani di sempre, ha appeso il fischietto al chiodo dopo 15 anni e quasi 200 partite in Serie A, due finali di Coppa Italia, 10 anni di sfide in campo europeo. Attualmente, oltre a mantenere l’incarico di educatore professionale a Villa Cristina (casa di cura neuro-psichiatrica torinese), ha fondato un’associazione di volontariato che si chiama Agape che si occupa, attraverso attività di tipo sportivo e ricreativo, di persone con problemi di natura psichica.




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