Tra politica ed economia

Pubblicato il 12-10-2009

di Guido Bodrato

Quarto incontro del ciclo “Nel buio di una grande crisi c’è sempre una luce” organizzato dall’Università del Dialogo: uno sguardo d’insieme sugli ultimi 60 anni ci aiuta a capire quello che succede oggi.

di Guido Bodrato

Dopo la tragica fine dei regimi nazi-fascisti (1945), la democrazia rinasce in Europa ed in Italia in un mondo dominato dal bipolarismo Usa/Urss e dalla “guerra fredda”, ed è caratterizzata dal diffondersi di un modello politico, sociale ed economico, che si ispira ai valori del personalismo e dal comunitarismo (Mounier e Maritain). Le riforma che caratterizzano questa stagione della politica sono il prodotto della alleanza tra capitalismo e democrazia. Non a caso si parlerà di “economia mista” ed in seguito di “economia sociale di mercato.” Il modello cui si ispira la ricostruzione nei paesi europei è infatti quello dell’economia di mercato, ma le scelte concrete sono finalizzata alla diffusione di una maggiore giustizia sociale, e queste scelte richiedono una forte presenza dello Stato. Il modello liberista che domina in Occidente appare alternativo al modello collettivista che domina nell’Oriente, ma quel liberismo non può ignorare la correzione keynesiana (da John Keynes) che si è imposta negli Usa dopo la grande crisi del ‘29; e non può ignorare neppure la necessità di rispondere alla forte domanda di trasformazione sociale che sta caratterizzando la politica europea, negli anni che seguono alla lotta di liberazione dal nazi-fascismo e la necessità di fronteggiare anche sul terreno sociale la sfida del comunismo. I padri fondatori dell'Europa
Il welfare state è il prodotto di questo grande compromesso tra capitalismo e democrazia. La stessa Costituzione italiana nella prima parte (programmatica) può essere considerata un “patto” sui diritti di cittadinanza e sui valori di giustizia sociale che diventano le coordinate dello “stato sociale”. Costruire lo stato sociale (o del benessere) significa diffondere i diritti di cittadinanza a tutti, ridistribuire le risorse finanziarie (in particolar modo attraverso la politica fiscale), rafforzare la presenza pubblica nell’economia (cfr. Iri, Eni, Enel) ma soprattutto investire risorse pubbliche nei servizi sociali (dall’istruzione alla sanità, dalla previdenza alla casa) ed assegnare un ruolo strategico alla domanda pubblica (infrastrutture). Questo “riformismo” si intreccia con una altrettanto radicale trasformazione dell’apparato produttivo, cioè con l’industrializzazione del sistema produttivo: si riduce l’importanza dell’agricoltura, cresce l’occupazione dell’industria. E cresce il ruolo del sindacato, che ha il suo punto di forza nelle grandi fabbriche del Nord. Le riforme sociali comportano l’espansione dell’occupazione nel settore del “terziario pubblico”, caratterizzato dalla presenza di un nuovo ceto medio, mentre i mercati (prima segnati dall’autarchia) si aprono ad una concorrenza internazionale che stimola lo sviluppo tecnologico. Con i salari crescono anche i consumi privati e si alimenta così un circuito economico “virtuoso”. Il più ambizioso obiettivo è la piena occupazione, insieme al superamento della frattura storica tra le regioni settentrionali e quelle meridionali. Con l’obiettivo della piena occupazione e dello sviluppo del mezzogiorno aumentano anche la rivendicazioni sindacali e si registra l’espansione del reddito delle famiglie; il risparmio privato cresce peraltro anche perché alla domanda sociale risponde il bilancio pubblico.
operai in fabbrica anni 50 Le scelte riformiste degli anni 1950/70 guardano al modello delle socialdemocrazie scandinave ed al laburismo britannico. Ma nella “piccola Europa” dei sei paesi (tra cui l’Italia) che negli anni ‘50 danno vita alla Comunità europea per lasciarsi definitivamente alle spalle i nazionalismi che hanno alimentato la “guerra civile europea”, lo stato sociale viene costruito soprattutto dai partiti democratico-cristiani allora al governo nella maggior parte dei paesi della Comunità. Queste riforme sociali, portate avanti anche con gradualità e seguendo le regole della democrazia parlamentare, hanno comportato una forte espansione della spesa pubblica ed hanno pertanto richiesto una profonda riforma della politica fiscale, la quale ha acquistato una sempre più evidente funzione “redistributiva”. In due decenni, dagli anni ‘50 agli anni ‘70, la pressione fiscale passa da meno del 20% del pil, a più del 40%. E cresce altrettanto la spesa sociale (casa, istruzione, sanità, previdenza).
La continua crescita della pressione fiscale porterà in seguito alla “crisi dello stato fiscale”, all’esplosione dell’inflazione, ad una crescita del debito pubblico ed al “rovesciamento conservatore” dell’orientamento della politica. Il modello che si afferma nei paesi della Comunità europea è definito come “economia sociale di mercato”, poiché nell’attività economia oltre la presenza delle imprese private operano anche grandi imprese pubbliche (dalla siderurgia all’energia), e soprattutto perché una presenza strategica delle attività che definiscono il welfare si riflette nel bilancio dello Stato ed ha una particolare evidenza nella tendenza a crescere del debito pubblico.

 

Guido Bodrato


Martedì 26 maggio ore 21, ultimo incontro dell’Università del Dialogo


Il testo del Card. Martini citato nell’articolo è il Messaggio alla Città, 6 dicembre 1995, reperibile tramite il sito http://www.chiesadimilano.it/or4/or?uid=ADMIesy.main.index&oid=78197


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