Dopo la tragica fine dei regimi nazi-fascisti (1945), la democrazia rinasce in Europa ed in Italia in un mondo dominato dal bipolarismo Usa/Urss e dalla “guerra fredda”, ed è caratterizzata dal diffondersi di un modello politico, sociale ed economico, che si ispira ai valori del personalismo e dal comunitarismo (Mounier e Maritain). Le riforma che caratterizzano questa stagione della politica sono il prodotto della alleanza tra capitalismo e democrazia. Non a caso si parlerà di “economia mista” ed in seguito di “economia sociale di mercato.”
Il modello cui si ispira la ricostruzione nei paesi europei è infatti quello dell’economia di mercato, ma le scelte concrete sono finalizzata alla diffusione di una maggiore giustizia sociale, e queste scelte richiedono una forte presenza dello Stato. Il modello liberista che domina in Occidente appare alternativo al modello collettivista che domina nell’Oriente, ma quel liberismo non può ignorare la correzione keynesiana (da John Keynes) che si è imposta negli Usa dopo la grande crisi del ‘29; e non può ignorare neppure la necessità di rispondere alla forte domanda di trasformazione sociale che sta caratterizzando la politica europea, negli anni che seguono alla lotta di liberazione dal nazi-fascismo e la necessità di fronteggiare anche sul terreno sociale la sfida del comunismo.
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Il welfare state è il prodotto di questo grande compromesso tra capitalismo e democrazia. La stessa Costituzione italiana nella prima parte (programmatica) può essere considerata un “patto” sui diritti di cittadinanza e sui valori di giustizia sociale che diventano le coordinate dello “stato sociale”.
Costruire lo stato sociale (o del benessere) significa diffondere i diritti di cittadinanza a tutti, ridistribuire le risorse finanziarie (in particolar modo attraverso la politica fiscale), rafforzare la presenza pubblica nell’economia (cfr. Iri, Eni, Enel) ma soprattutto investire risorse pubbliche nei servizi sociali (dall’istruzione alla sanità, dalla previdenza alla casa) ed assegnare un ruolo strategico alla domanda pubblica (infrastrutture).
Questo “riformismo” si intreccia con una altrettanto radicale trasformazione dell’apparato produttivo, cioè con l’industrializzazione del sistema produttivo: si riduce l’importanza dell’agricoltura, cresce l’occupazione dell’industria. E cresce il ruolo del sindacato, che ha il suo punto di forza nelle grandi fabbriche del Nord. Le riforme sociali comportano l’espansione dell’occupazione nel settore del “terziario pubblico”, caratterizzato dalla presenza di un nuovo ceto medio, mentre i mercati (prima segnati dall’autarchia) si aprono ad una concorrenza internazionale che stimola lo sviluppo tecnologico.
Con i salari crescono anche i consumi privati e si alimenta così un circuito economico “virtuoso”. Il più ambizioso obiettivo è la piena occupazione, insieme al superamento della frattura storica tra le regioni settentrionali e quelle meridionali. Con l’obiettivo della piena occupazione e dello sviluppo del mezzogiorno aumentano anche la rivendicazioni sindacali e si registra l’espansione del reddito delle famiglie; il risparmio privato cresce peraltro anche perché alla domanda sociale risponde il bilancio pubblico.
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Le scelte riformiste degli anni 1950/70 guardano al modello delle socialdemocrazie scandinave ed al laburismo britannico. Ma nella “piccola Europa” dei sei paesi (tra cui l’Italia) che negli anni ‘50 danno vita alla Comunità europea per lasciarsi definitivamente alle spalle i nazionalismi che hanno alimentato la “guerra civile europea”, lo stato sociale viene costruito soprattutto dai partiti democratico-cristiani allora al governo nella maggior parte dei paesi della Comunità.
Queste riforme sociali, portate avanti anche con gradualità e seguendo le regole della democrazia parlamentare, hanno comportato una forte espansione della spesa pubblica ed hanno pertanto richiesto una profonda riforma della politica fiscale, la quale ha acquistato una sempre più evidente funzione “redistributiva”. In due decenni, dagli anni ‘50 agli anni ‘70, la pressione fiscale passa da meno del 20% del pil, a più del 40%. E cresce altrettanto la spesa sociale (casa, istruzione, sanità, previdenza).
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La continua crescita della pressione fiscale porterà in seguito alla “crisi dello stato fiscale”, all’esplosione dell’inflazione, ad una crescita del debito pubblico ed al “rovesciamento conservatore” dell’orientamento della politica.
Il modello che si afferma nei paesi della Comunità europea è definito come “economia sociale di mercato”, poiché nell’attività economia oltre la presenza delle imprese private operano anche grandi imprese pubbliche (dalla siderurgia all’energia), e soprattutto perché una presenza strategica delle attività che definiscono il welfare si riflette nel bilancio dello Stato ed ha una particolare evidenza nella tendenza a crescere del debito pubblico.
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Il ciclo cui abbiamo fatto riferimento, che dura trent’anni, ha favorito un significativa trasformazione della società: all’inizio degli anni ‘50 i due terzi della popolazione viveva ai margini del benessere ed era interessato politicamente ad una profonda trasformazione del sistema socio-economico; alla fine degli anni ‘70 la popolazione che partecipa allo “welfare” sale ai due terzi. Uno straordinario mutamento dovuto alla crescita complessiva del sistema produttivo, alle rivendicazioni sindacali che hanno favorito la crescita dei redditi delle famiglie, ma soprattutto agli effetti delle riforme sociali di cui abbiamo parlato. Sono mutamenti che si riflettono anche sul modello politico. Nella “democrazia dei due terzi”, tenderà a prevalere l’interesse a conservare le conquiste sociali, piuttosto che ad allargarle al “terzo” della società ancora ai margini dello sviluppo e del benessere. Si verrà cioè ad affermare nella maggioranza della popolazione una tendenza “egoistica”, invece di rafforzarsi quella alla solidarietà (anche generazionale) che aveva ispirato la lunga stagione delle riforme sociali.
La “maggioranza dei due terzi”, figlia del welfare, chiede un alleggerimento della pressione fiscale ed è risposta ad accettare privatizzazioni delle imprese pubbliche e deregulation; questa maggioranza (anche di governo) entra così in conflitto con il “movimento” del ‘68, caratterizzato da una contestazione giovanile e sindacale che ha forti connotati anti-capitalisti e pensa di essere alla vigilia della catastrofe del capitalismo; mentre in realtà si avvicina la caduta del muro di Berlino, cioè il tramonto del socialismo reale, e si sta consolidando la globalizzazione dell’economia.
Si potrebbe affermare, parafrasando ciò che Berlinguer ha detto del regime sovietico, che alla fine degli anni ‘80 si è esaurita, con la spinta propulsiva della “rivoluzione d’ottobre”, anche la spinta propulsiva della strategia delle riforme che ha portato alla costruzione del welfare.
A questo complessivo mutamento di orizzonte, in una società sempre più articolata ed investita da radicali mutamenti nel modo di produrre e di organizzare la produzione, si aggiunge la tendenza a rafforzarsi del ruolo del mercato (con una mondializzazione di mercati che appare “irresistibile”) e della cultura della competizione, che sono destinati a mettere in discussione la burocratizzazione del welfare (ed i suoi costi) e poi la stessa stabilità del lavoro. Cresce la tendenza alla deregulation ed alla liberalizzazione dell’economia (anche per effetto del mercato unico europeo): e l’americanizzazione dell’economia europea subisce una accelerazione.. Gli eroi delle rivoluzione conservatrice, di quello che sarà chiamato “il pensiero unico”, “senza alternative”, sono la Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti.
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All’inizio degli anni ’90, Michel Albert mette a confronto due modelli di capitalismo: quello “neo-americano”, fondato sui valori individuali, sulle riduzione delle regole e del controllo pubblico, sulla massimizzazione del profitto a breve e sullo strapotere del mercato finanziario; e quello “renano” ( sinonimo di “tedesco”) fondato su un’economia di mercato che si pone tuttavia come obiettivo anche la “coesione sociale”, considerandolo un valore che è anche un fattore di competitività del sistema economico.
Il tipo di sviluppo più desiderabile, tra queste due tendenze, è in teoria quello renano; ed è quello meglio coordinabile con strategie che si propongono il “bene comune” e la costruzione di una società più giusta: E tuttavia Albert prevede che prevarrà il modello che si ispira al “capitalismo selvaggio”, ad una competizione segnato dall’egoismo. Nel corso degli anni ’90 si realizza la “rivoluzione conservatrice”, favorita dalla crisi dello stato fiscale, cioè dall’esplosione dell’inflazione e del debito pubblico, ma anche per il sovrapporsi dei conflitti sociali sempre più corporativi, alle crescenti disfunzioni (ed ai costi) dell’apparato burocratico che gestisce lo stato sociale con sempre minore attenzione alla “misura umana.” E con un crescente peso degli interessi corporativi.
La realizzazione dell’Euro permetterà di mettere sotto controllo una crisi finanziaria che stava minacciando di travolgere l’economia italiana, frenando l’inflazione, riducendo i costi del debito pubblico e riducendo la sua tendenza a crescere senza limiti.. La crisi dello stato sociale e l’obiettivo di ridurre il debito pubblico (imposto dall’Unione europea) spingono tuttavia a rovesciare la politica che ha caratterizzato gli anni del riformismo, a privatizzare le imprese statali, ad imboccare una strada di revisione liberista della economia, a proporsi una riforma del welfare che comporta un suo ridimensionamento. La “rivoluzione conservatrice” è stata politicamente favorita dalla “sconfitta” del comunismo, cioè dal declino del modello di società socialista.
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La rivoluzione conservatrice, o neo-liberista, ha cavalcato l’esplosione della globalizzazione. Con la mondializzazione dei mercati, cioè con l’ingresso in un mercato sempre più aperto di beni prodotti da sistemi economici caratterizzati da costi della produzione nettamente inferiori rispetto a quelli dei paesi industriali caratterizzati dalla presenza dei sindacati e dello stato sociale, si evidenzia una radicale contraddizione tra livello dell’occupazione, costo del lavoro, livello della spesa sociale, livello dei consumi.
La deregulation si estende al mercato del lavoro dei paesi che avevano puntato alla realizzazione della piena occupazione: la flessibilità del lavoro (ritenuta fattore di competitività) diventa precarietà e poi disoccupazione. Per recuperare livelli di occupazione accettabili, i paesi di antica industrializzazione dovrebbero investire in formazione ricerca e tecnologia. Ma questa strategia stenta a realizzarsi, mentre è sempre più evidente che questo “super capitalismo” per mantenere alto il tasso di crescita dell’economia, che deve essere garantita dalla crescita dei consumi, spinge le famiglie che vedono ridursi le risorse di cui dispongono, ad indebitarsi. In particolare per l’acquisto della casa.
Questa rivoluzione conservatrice è caratterizzata anche dal declino dell’industria manifatturiera, che declina prima in America e poi in Europa, mentre dilaga la terziarizzazione dell’economia e soprattutto la sua finanziarizzazione. I grandi stabilimenti manifatturieri sono trasformati in grandi magazzini. Le attività manifatturiere tradizionali sono “decentrate” in paesi con più bassi costi di produzione. Anche questi fenomeni sono accentuati dal capitalismo finanziario (selvaggio) che punta a guadagni speculativi, a breve tempo.
Gli economisti più aperti parlano sin dagli anni ‘90 di “età dell’incertezza”: mentre l’Europa per competere con le tigri dell’Asia, con la Cina e con l’India, pensa di imboccare la strada dell’americanizzazione dell’economia, in America c’è chi guarda al modello europeo, specie per la politica sanitaria e per la sicurezza sociale, cioè per le politiche a favore della coesione sociale (considerata un fattore di competitività).
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Anche il modello americano del capitalismo senza regole, del capitalismo finanziario che alimenta il consumismo e cannibalizza il capitalismo industriale, e l’onda lunga della globalizzazione, arrivano al capolinea. La crisi del modello americano è preannunciata nel 2007 da due fattori: la crescente diseguaglianza sociale, con l’affermarsi della casta dei manager e l’impoverimento del ceto medio; il crescente indebitamento delle famiglie che (specie per la casa) sono spinte a “consumare” (pubblicità televisiva, conformismo antropologico) in un tempo caratterizzato dallo scivolamento verso la povertà di una fascia crescente di popolazione.
Si delinea una crisi finanziaria (e delle banche) che fa ripensare al 1929, e che costringe a riflettere nuovamente sul keynesismo, cioè sull’intervento dello Stato per contrastare la caduta degli investimenti e dei consumi, cioè per contrastare una recessione che sta facendo fallire le finanziarie e che potrebbe travolgere anche l’economia reale. La situazione dell’economia è molto diversa da quella degli anni ‘30, sia se si fa riferimento alle cause della crisi, sia alla mondializzazione dell’economia, sia alla diversa incidenza del bilancio pubblico sul Pil.
Nella svolta decisa negli Stati Uniti da Obama, svolta che si riflette anche sulle politiche europee, c’è un dato su cui riflettere: la rivalutazione dell’intervento pubblico, a partire da quello che riguarda le regole del mondo della finanza, si intreccia con una forte esigenza etica. .Si è chiuso il ciclo del Supercapitalismo, ed è sempre più evidente che saranno soprattutto le fasce sociali più povere ed i paesi sottosviluppati a pagare il prezzo più alto della crisi.
Non è ancora chiaro cosa nascerà dalle ceneri del capitalismo selvaggio (che Bush definiva”compassionevole”); in realtà si tratta di mettere in campo valori umani che definiscano nuovi obiettivi per l’economia capitalistica. I più importanti studiosi del capitalismo concordano nel dire che “la crisi è una componente irrinunciabile del divenire del capitalismo”.
Questo significa che si tratta di definire un nuovo compromesso, che faccia i conti con la globalizzazione. Cioè che deve tornare in campo la responsabilità della politica, che bisogna elaborare un nuovo progetto. È evidente che la strategia del G5 ed anche del G8 non è più proponibile, in un mercato internazionale dove sono attori strategici anche la Cina, l’India, il Brasile, la Russia,… Ma è anche vero che il G20 non riesce ancora ad elaborare una strategia capace di calarsi nella realtà, poiché è sin’ora mancata una riflessione complessiva sulle radici della crisi.
Ed il confronto tra i diversi soggetti è ancora prigioniero del conflitto tra opposti interessi. Questo si intende dire quando si assegna un primato alla politica e si sostiene la necessità di ridare un primato ai valori, e per quanto ci riguarda fare scelte ispirate ad una visione cristiana della vita, rileggendo ciò che ha scritto il Card. Martini sin dal 1995. Per costruire una società nuova, a livello mondiale, si dovranno recuperare i valori della fraternità e della solidarietà, rimettendo in campo, nel tempo che ci è dato vivere, “laicamente”, un modello sociale a misura d’uomo, come si è fatto nel tempo della rinascita della democrazia.
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