VITE INCHIODATE
Pubblicato il 31-08-2009
E se fossero proprio le nostre, le vite inchiodate dalla paura di incrociare il dolore? Riflessioni a margine della storia di Eluana Englaro.
di Elena Goisis
Caro amico di 17 anni, “uno tra tanti” come ti limiti a firmarti, mi chiedi cosa penso della storia di Eluana Englaro, la giovane donna di Lecco, da 16 anni in stato vegetativo, per la quale il padre ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione a sospendere l’alimentazione forzata. Già, cosa penso? Me lo sono chiesta tante volte in questa estate strana, mentre lotto prima contro il caldo e l’umidità, poi contro la stanchezza che ogni tanto ti prende quando hai scelto una casa aperta agli altri 24 ore su 24… E mentre me lo chiedo, mi vengono in mente incontri e letture di questi ultimi tempi, di quelli che ti si stampano sul cuore lasciandovi la loro impronta indelebile. |
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Penso a padre Tan Tiande, cinese del Guangdong, imprigionato per 30 anni nell’inferno dei campi di lavoro forzato, inventati dalla Cina maoista per “convertire” i cosiddetti intellettuali al pensiero unico del proprio leader. “Avrei voluto correre nei campi e gridare ad alta voce ‘Dio, dove sei?’”, ricorda, e parla del dolore di scoprire a che punto possono arrivare uomini privati della loro umanità. Penso a Gemma Galgani, mistica sconosciuta di Lucca, morta a 25 anni e un mese dopo aver provato sul proprio corpo e nella propria famiglia una concentrazione impressionante di sofferenze, eppure accettate e offerte per altri sofferenti, con tale serenità da portarla a somigliare al proprio Modello nelle stimmate. |
Penso a Laura, amica del quartiere, due gambe come due fiammiferi inutili, ridotta così da un incidente stradale che ha stroncato, insieme ai suoi 30 anni, la grande passione per i viaggi ed il lavoro di infermiera. Laura, che ora non vuol più mangiare perché è rimasta sola ed è stanca di vivere, dopo aver perso il papà ancora giovane per un analogo incidente.
Penso ai volti di queste e di tante altre persone incontrate negli anni di vita all’Arsenale della Pace e mi chiedo: quand’è che la sofferenza diventa troppa, quand’è che è una vita perde i requisiti minimi necessari per essere vissuta? |
Perché - capisco improvvisamente - il problema è proprio questo, il problema di tutti coloro che di fronte a situazioni come quella di Eluana abbracciano un partito preso: non potersi immaginare in una sofferenza simile. E quindi rimuoverla, a tutti i costi, chiedendo di eliminarne la vittima – per pietà umana, naturalmente - o individuando il “colpevole”, come se un povero padre esausto fosse responsabile di 16 anni di immobilità della figlia che ama. E se i colpevoli fossimo proprio noi, che ce ne stiamo a lato, guardiamo e sentenziamo? | ![]() |
“Non stiamo troppo vicini – ci scusiamo - perché la famiglia potrebbe non aver piacere”… Ma come non aver piacere? Come può non aver piacere di una visita, di un gesto di fraternità una famiglia che per anni e anni si trova inchiodata attorno ad un letto o ad un familiare dalla mente abnorme? Proprio questo, invece, ci fa paura: che “loro” abbiano piacere, che “noi” ci avviciniamo troppo e restiamo inchiodati, anche noi, perché quando si apre una porta poi è difficile richiuderla, perché la sofferenza di quella famiglia potrebbe diventare un po’ anche la nostra sofferenza, la nostra fatica, il nostro scontrarci con le grandi domande della vita. E in questo momento proprio non abbiamo voglia, o meglio, “non abbiamo tempo: i figli da crescere, il lavoro che preme, il gruppo degli amici che non capirebbe…”. |
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Le scuse non mancano, ma il motivo è sempre lo stesso: la sofferenza fa fatica, meglio starne lontani finché si può. Se tocca agli altri, meglio esorcizzarla, come se bastasse una firma su un appello o una raccolta di bottigliette d’acqua per risolvere il problema. E se invece cambiassimo rotta? Se anziché bottigliette d’acqua raccogliessimo ore di volontariato (cioè di amore) attorno a quei letti, attorno a quei corpi muti, a quelle famiglie esauste? Una bella sottoscrizione e poi via, mappando ed accompagnando i dolori della nostra città dentro i quartieri, le parrocchie, i condomini, le case di cura… |
Quanti dolori nascosti scopriremmo, quante Eluane, quanti Welby… ; ma anche tanta santità quotidiana, fatta non di grandi gesti ma di pazienza e forza d’animo, quella che un tempo si chiamava “fortezza” e che oggi non è più di moda. Scopriremmo che proprio affrontando la sofferenza, nostra e degli altri, le nostre vite diventerebbero più degne di essere vissute. Scopriremmo che l’umanità di Eluana (che non è minimamente in discussione) fa crescere la nostra, di umanità. E ringrazieremmo lei e la sua famiglia, per l’occasione che ci danno di dare un senso alle nostre vite. |
Elena Goisis
da Nuovo Progetto agosto/settembre 2008 |
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