Le donne del SUDAN
Pubblicato il 31-08-2009
Guerra, povertà e pace dopo più di 20 anni di guerra, visti al femminile…
Il 18-19 marzo ‘05 si è tenuto a Milano il forum internazionale “Quale pace per il Sudan? La parola alla società civile” promosso dalla Campagna Sudan (www.campagnasudan.it). Tra i relatori, Asha El Karib (foto), dirigente di una coalizione di Ong africane e profondamente impegnata nel far sentire la voce delle donne nel processo di ricostruzione della società civile sudanese. Le abbiamo posto alcune domande. |
Cosa significa farsi promotrice della pace e dei diritti delle donne nel Sudan odierno? Penso che la sfida più imminente per le donne sudanesi sia assicurare la propria partecipazione a sostegno della pace. È una sfida grande, perché nell’accordo di pace tra il governo di Khartoum e i membri dell’SPLM/A (cfr. box a lato) nessuno ha coinvolto le donne: non c’è uno spazio in cui esse abbiano potuto esprimersi e ora è necessario trovarlo. Per contribuire a realizzare e mantenere la pace in Sudan, la popolazione - in particolare le donne - ha bisogno di essere informata riguardo all’accordo, così da poter rivendicare il proprio ruolo al suo interno. Il processo di democratizzazione in atto è l’unica via attraverso la quale si può garantire che le donne vengano coinvolte politicamente e nel partecipare al futuro del Paese. Per questo il coinvolgimento delle donne nell’elaborazione della Costituzione e nella legislazione è fondamentale: quando si elabora una nuova Costituzione si gettano le basi per tutto ciò che accadrà in seguito; è la Costituzione che può garantire i diritti della gente del Sudan e i diritti delle donne; se riusciamo a contribuire alla sua stesura, ad assicurare che parli esplicitamente di parità tra i sessi e ad eliminare qualsiasi elemento che possa essere interpretato come discriminatorio contro le donne, avremo messo delle solide basi. |
Quali sono le altre sfide? |
| Rispetto alla questione della mutilazione genitale femminile, come è possibile agire? La mutilazione genitale femminile è una delle pratiche di violenza più radicate in Sudan. Le organizzazioni umanitarie e la società civile sudanese stanno affrontando la questione muovendosi su due fronti: il primo è il lavoro con le persone stesse, per renderle consapevoli dei rischi e dei pericoli della mutilazione genitale femminile e del fatto che si tratta di una violazione dei diritti delle bambine: è infatti praticata sulle bambine piccole, che non hanno alcuna possibilità di scelta, ed è una pratica irreversibile. Creare questa consapevolezza, a livello della comunità, richiede molto tempo e pazienza ma stiamo ottenendo dei successi. In secondo luogo, operare sulla legislazione: finora in Sudan non ci sono leggi penali che indichino le mutilazioni genitali femminili come un atto criminale. Stiamo lavorando su questo fronte per cercare di convincere i legislatori a promuovere una legge che le proibisca e imponga pene e condanne a chi le pratica. Infine, ritengo che anche la solidarietà internazionale sia importante: per confrontarsi con quello che avviene in altri Paesi - le mutilazioni genitali femminili sono presenti anche nel Corno d’Africa e in altre aree del continente e poi nello Yemen e in Asia - e per mostrare che, benché alcuni sudanesi pensino che sia una pratica islamica, non avviene affatto in Paesi islamici come l’Arabia Saudita, l’Iraq, l’Iran e l’Afghanistan. è importante che la gente ne sia consapevole. |
E rispetto alla violenza sessuale sulle donne? Penso che la violenza contro le donne sia oggi più grave che mai, perché utilizzata come arma in guerra: nei lunghi anni di guerra tantissime donne, per esempio nel Sud, sono state stuprate e questo accade ora sistematicamente in Darfur. Si tratta di un terribile atto usato da alcuni gruppi contro altri per umiliare le donne e gli uomini di quella gente. È un fatto grave perché, se da un lato viene utilizzato come arma di guerra, dall’altro lato non se ne parla facilmente: non è infatti culturalmente apprezzato che la gente parli degli abusi sessuali sulle donne e si preferisce piuttosto tacerli. Penso che rompere il silenzio sia estremamente importante e siamo molto contenti perché oggi alcune donne, soprattutto in Darfur, iniziano a raccontare, con il supporto dei loro mariti o fratelli. Queste donne possono fare e stanno già facendo la differenza! Questo contro grandi difficoltà, perché il governo non vuole che se ne parli: ciò gli recherebbe delle responsabilità; le famiglie non vogliono parlarne, perché è considerato qualcosa di culturalmente vergognoso, un disonore per la donna e per tutta la famiglia. E nemmeno la comunità internazionale vuole che se ne parli, perché ciò la sfiderebbe a lavorare su problemi ben più grandi degli aiuti umanitari, del dare cibo o acqua: dovrebbe essere più coinvolta in questioni di diritti umani, nel counseling, nel trattare il trauma psicologico. Questa è davvero una grande sfida. a cura della redazione di N.P. da Nuovo Progetto giugno/luglio 2005 |