La strada del capitano

Pubblicato il 19-07-2016

di Paolo Maggioni

di Paolo Maggioni - Mi scuseranno i lettori, ma questo è un messaggio auto-promozionale. Un carosello vecchi tempi: parliamo d’altro per un po’, e alla fine lanciamo il prodotto. Tolleratemi, credo ne valga la pena. Partiamo da lontano: c’era una volta un Paese povero ma bello, uscito dalla guerra con le ossa rotta e con tanta voglia di ricominciare.

Una pianura sconfinata, al Nord, tagliata in due dalla nebbia, dalla fatica, dal fumo delle fabbriche. In mezzo a quella pianura, una città, Milano, che sognava già allora da metropoli. Poi c’è un pallone. Negli oratori, nei giardini e nelle piazze non si fa altro che giocare. Partite infinite, che possono durare un pomeriggio intero, anche perché non ci sono consolle, social e tablet. A mezza strada tra Milano e Bergamo c’è Treviglio. Tutti i treni che collegano metropoli e campagna passano da lì.

Quello che il piccolo Giacinto aspetta da una vita ha l’aspetto seducente, un po’ burbero e parimenti buffo – in una parola, irresistibile – di Helenio Herrera, l’allenatore della Grande Inter: un francese nato a Buenos Aires e cresciuto in Marocco, e che prima a Barcellona, poi a Milano, è diventato il Mago della panchina. Sarà una vera rivoluzione, Giacinto: il primo terzino d’attacco della storia del calcio, veloce ed imprendibile. Arriveranno scudetti e coppe a ripetizione.

E la maglia della nazionale di cui essere il capitano dei capitani, apprezzato in tutto il mondo per la lealtà e la dignità del carattere. Arriverà anche un’espulsione, una sola, in tutta la carriera. Perché non si può essere dei santi anche se si è cresciuti all'oratorio. “Sono sempre stato del parere che se si deve essere un esempio per gli altri ci si deve anche comportare bene” amava raccontare Facchetti. “Quando andavo all'oratorio non bastava essere bravi per giocare in squadra, ci si doveva sempre comportare bene. Poi, diventa un’abitudine”. Una abitudine che racconta che non è necessario vincere per forza, intanto. E che farlo senza scorciatoie è ancora più bello.

Perché il calcio può essere ancora speranza, riscossa, perfino gioiosa rivoluzione. Ma senza regole diventa un’altra cosa. È morto dieci anni fa, Facchetti. Paradossalmente, la moneta più pulita, pagata dal calcio nella bufera di Calciopoli, per una riscossa possibile. Nella sua ultima intervista, concessa a Massimo Raffaeli, raffinatissimo critico letterario marchigiano, Facchetti è ritornato alla sua infanzia, alla campagna intorno a Treviglio e agli anni meravigliosi dell’oratorio. “Vado avanti per la mia strada come ho sempre cercato di fare nella vita. Anche perché penso che le cose brutte o scorrette prima o poi vengono a galla. Mio padre diceva sempre che il tempo è galantuomo, e io continuo a pensarla come lui”. Insomma, un esempio, che non voleva diventare un simbolo.

Oggi più di allora, una storia che parla a tanti ragazzi. Ah, giusto. Rispettiamo il format del Carosello, e facciamo outing: su questa storia ci ho fatto un graphic novel – nel dopoguerra si chiamava solo fumetto – sceneggiato con Davide Barzi e disegnato da Davide Castelluccio. Si chiama Giacinto Facchetti – Il rumore non fa gol. Ed. Beccogiallo, se volete. Ma basta anche il pensiero.








Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

 

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