Gli schiavi trovano casa

Pubblicato il 13-03-2016

di Ernesto Olivero

Articolo di Ernesto Olivero sul supplemento di Avvenire "La porta aperta" il mensile del Giubileo del 13 marzo 2016
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Ognuno di noi diventa persona quando impara a guardare l’altro, con uno sguardo libero, senza pregiudizio: ne rispetta la storia perché sa che spesso è da lì che nasce la sua sofferenza e impara a comprenderne i bisogni. Mettendosi nei panni degli altri si capiscono meglio le loro ragioni, i loro pregi e i loro difetti. Ho capito che con questa mentalità posso imparare a capire meglio anche me stesso, le mie fatiche, la sofferenza che mi porto dentro.

L’ho imparato in Brasile quando negli anni Ottanta ho visitato per la prima volta quella terra che poi sarebbe diventata la mia terra di adozione. Girando il Brasile ho capito che dovevo imparare a farmi brasiliano con i brasiliani, bambino di strada con i bambini di strada e poi ancora sofredor de rua con i sofredores de rua. Nel 1996, a San Paolo, quando sono entrato per la prima volta nella vecchia Hospedaria dos Migrantes, la Casa della quarantena degli immigrati che cercavano fortuna in Brasile, tra cui quasi un milione di italiani, la mia vita è cambiata. Trovai negli archivi una vecchia immagine d’epoca che ritraeva un uomo, un uomo come me; sotto la foto, una scritta: “Vendesi schiavo, età 45 anni, prezzo trattabile”.  Mi si gonfiò il cuore. Sentii tutto il dolore di quella povera gente.

Schiavisti senza scrupoli, allora come oggi, solo in forme diverse, strappavano uomini e donne dai loro Paesi, dalle loro case, dai loro affetti per incatenarli su navi e trapiantarli in una terra al di là dell’oceano, in un continente sconosciuto, in un Paese nuovo. Uomini e donne come me, figli di Dio, torturati, picchiati, uccisi, venduti come merce, portati a volte all’accoppiamento per poi far continuare loro una vita da schiavi senza relazioni famigliari stabili. Le conseguenze di tutto questo in paesi come il Brasile, ma non solo, le vediamo ancora oggi: nella storia di questo popolo c’è una sofferenza che non si cancella con un colpo di spugna. E’ una  sofferenza che si trasmette di generazione in generazione, una nostalgia delle proprie radici spezzate, un bisogno di identità perduta che spesso diventa anche rabbia, ribellione, criminalità.

Per guarire c’è bisogno di sanare le ferite, le piaghe del passato; c’è bisogno di riconciliazione per poter ritrovare una dignità che è stata strappata e violentata. La storia degli schiavi mi soffoca: indietro non si può andare, ma avanti si può, in modo diverso. Con i miei amici abbiamo scelto di spendere la vita in Brasile come in tanti altri posti del mondo per restituire dignità a tutte quelle persone che l’hanno persa per errori personali o per la storia da cui provengono. Oggi il luogo in cui mi si gonfiò il cuore davanti a quella foto d’epoca non è più una casa di quarantena per gli schiavi ma una casa che accoglie, fascia e cura i più abbandonati e sfruttati. È diventato l’Arsenale della Speranza, una casa sempre aperta che accoglie 1200 uomini, persone come noi, che non hanno un riparo. È nata così un’avventura che da 20 anni ha messo radici a migliaia e migliaia di chilometri dall'Italia.

All'Arsenale sediamo tutti alla stessa mensa, chi accoglie e chi è accolto; non abbiamo divise che differenziano gli uni dagli altri. Vogliamo tutti un mondo migliore e abbiamo capito che la recriminazione non basta per costruirlo e nemmeno la commozione. Bisogna alzarci e iniziare a camminare. Non lo pretendiamo dagli altri il mondo migliore, ma lo costruiamo insieme, con il rispetto, l’accoglienza, le cure, il lavoro per restituire anzitutto dignità. Dignità che tante volte in questi anni ha accompagnato e fasciato uomini anche nel loro ultimo viaggio, con una sepoltura degna di un figlio di Dio. Da venti anni stiamo cercando di vivere questo amore, questo respiro. Diventando brasiliani con i brasiliani abbiamo cancellato, almeno nel nostro cuore, la convinzione che ci sia un primo, un secondo, un terzo mondo.

Il vescovo brasiliano dom Luciano Mendes de Almeida, uomo di Dio e mio padre spirituale, ripeteva sempre che l’Amore non ha colore; c’è un mondo unico dove ognuno deve poter avere le stesse opportunità, dove chi ha di più deve imparare a condividere con chi ha meno, per giustizia e non per pena. L’Arsenale è diventato un piccolo villaggio che vuole dare a tutti l’opportunità di imparare a vivere con dignità e che ha il grande desiderio che nel resto del Paese e del mondo accada la stessa cosa. Non è un sogno. Oggi lo posso dire: è possibile!

Ernesto Olivero

 

  

 

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