Coabitazione solidale

Pubblicato il 12-05-2024

di Stefano Caredda

Vivere insieme per vivere meglio, unendo forze e risorse per trovare risposte comuni ai bisogni di ognuno. Fra le tante esperienze di vita in comune, ce n'è una che nel dibattito accademico ha preso il nome di “coabitazione solidale”: semplificando, essa esiste quando le persone vivono insieme in una logica di solidarietà tra gli abitanti della casa. Un fenomeno difficile da censire, che si sta però sempre più sviluppando.

È intuitivo che non tutte le coabitazioni possano definirsi solidali: basti pensare a quelle che si formano sul mercato, fatte da studenti e lavoratori che decidono di abitare insieme anche, o forse soprattutto, per dividere le spese della casa, affitto in primis. La coabitazione solidale richiede invece la decisione di condividere le fatiche del quotidiano mettendo insieme risorse e risposte: è per questa sua caratteristica che è diventata oggetto di studio nell'ambito delle politiche di welfare.

Non è facile capirne con esattezza la diffusione in Italia: le esperienze più strutturate, come le comunità alloggio e i gruppi appartamento, convivono infatti con un pullulare di esperienze più piccole e sperimentali, ancora non inserite nella rete dei servizi. Eppure, per quanto ancora relativamente poche, in Italia queste esperienze sono però molto variegate: ci sono gruppi di persone con disabilità psichica o fisica, soggetti in uscita da percorsi di homelessness, padri separati, giovani in uscita dai percorsi di tutela e, più in generale, persone che, non avendo alle spalle una solida rete informale, non riescono a far fronte a eventi particolarmente difficili della vita. Ci sono coabitazioni omogenee (un gruppo di donne sole con figli) e disomogenee (l'abbinamento tra giovani e anziani oppure tra studenti e rifugiati); di solito sono soluzioni abitative temporanee, ma ce ne sono anche di stabili (le persone con disabilità, che hanno necessità di un progetto di vita duraturo). E ci sono quelle forme, che interessano persone con particolare vulnerabilità, dove esiste l'intervento di operatori educativi, sociali e sociosanitari, sempre però in un alloggio di civile abitazione (una “casa”, appunto), e non in grandi contesti residenziali.

La gran parte delle coabitazioni solidali sono gestite da enti del terzo settore, spesso grazie al sostegno economico delle fondazioni bancarie, ma si stanno sviluppando anche quelle inserite nella rete dei servizi territoriali, basate sul sistema delle rette (la Rete Nazionale Coabitare Solidale riunisce chi si occupa del tema o lo promuove). È un lavoro non semplice, perché non si può improvvisare: «Per far sì che le persone possano vivere insieme occorre un metodo e una specifica strumentazione di lavoro», rimarca la docente di Sociologia generale al Politecnico di Milano, Giuliana Costa, che di recente ha scritto un volume sul tema. «Devono essere convinte della bontà di andare a abitare con altri e devono riuscire a dare un senso all'esperienza, facilitando la vita in comune». Serve insomma trovare una giusta alchimia, usando metodo e cura. E sono sempre di più le occasioni in cui ce la si fa.


Stefano Caredda
NP aprile 2024

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