Crisi di responsabilità 1/2

Pubblicato il 10-08-2011

di Mauro Palombo

La crisi: non è certo una questione di opinioni. Non ne usciremo e graverà stabilmente su di noi se la responsabilità sociale di ogni attore economico non diverrà presto un impegno reale e concreto. Da misurare soprattutto in termini di quantità e qualità di lavoro offerto.
di Mauro Palombo
 
Prima parte
 
Mai come in quest’ultimo anno le analisi economiche si sono divise in due scuole di pensiero: ottimisti e pessimisti; con le ovvie relative sfumature. Come a dire: se la matematica notoriamente non è un’opinione, l’economia può esserlo. Tra gli ottimisti, anche senza bisogno di sondaggi è facile notare una massiccia presenza di responsabili di governo; un po’ per dovere del ruolo, un po’ proprio per i sondaggi di cui invece sempre necessitano.
 
I ‘pessimisti’, o presunti tali, sembrano invece appartenere ancora a coloro che pensano che i fenomeni economici possano essere indagati e compresi secondo modalità abbastanza scientifiche; pur ammettendo che c’è stata una discreta dèbacle nel sintetizzare le molte conoscenze fino a prevedere alcuni o tutti gli esiti poi materializzatisi. D’altro canto, chi, anche solo poco prima dell’inizio della crisi, avesse pubblicamente evocato la possibilità di un simile disastro sarebbe forse stato bollato come lugubre cassandra al soldo di non si sa quale forza oscura, ed emarginato. Soprattutto da coloro che hanno fidato ciecamente nella pura capacità del mercato di autoregolarsi per il meglio di tutti, e che andavano allora decisamente per la maggiore.
 
A distanza ormai di più di un anno dall’inizio dei rovesci finanziari, da più parti si è detto, quasi con incredulo stupore, “l’apocalisse non è arrivata”. Più esatto forse dire, non per tutti. Il rischio più grande è senz’altro che il passar del tempo stia portando piuttosto ancora una volta al noto paradosso: che tutto cambi, ma solo perché tutto possa rimanere come prima. La crisi non è per nulla psicologica, ma certo ha grande impatto sulla psicologia delle persone. Sappiamo quanto l’evoluzione stessa dell’economia si basi sulle percezioni e sulle attese, e quanto possono quindi influenzare una tendenza. Tuttavia, ciò non presuppone per forza un atteggiamento irrazionale; piuttosto reazione a situazioni che, nelle esperienze individuali, si manifestano, si ripercuotono, con evidenza anche pesante. Al di là delle tensioni per ottenere e gestire posizioni di potere, il crescere della paura, della sfiducia, dell’individualismo, dell’esclusione, i conflitti, in specie quelli che contrappongono poveri a poveri, non convengono ad una società. E a nessuno dei suoi membri.
 
Non solo finanza
Il crollo dei mercati finanziari si è scatenato poco più di un anno fa negli Stati Uniti; alimentato da un insieme di fattori legati alla struttura economica, finanziaria, normativa, e ad una indulgente cultura del credito praticata sia da chi presta che da chi prende a prestito. E da una tendenza alla pura speculazione, al di là di ogni valutazione obiettiva dei prezzi raggiunti dai beni negoziati, che si sono sganciati dalla realtà, alimentati solo dalla volontà di guadagno ad ogni costo. Non regge ritenere però la finanza – le borse, gli strumenti negoziati, gli operatori nei mercati – la sola colpevole di ogni dissesto, se si allarga l’analisi dello scenario sia nel tempo che nello spazio.
 
Ci sono stati, in tutto il mondo, comportamenti spaventosamente avidi e truffaldini, errori colpevoli di valutazione, congiunture sfavorevoli. Ma ancora di più oggi entrano in gioco fatti strutturali, e scelte miopi. Un elemento certo è che ci sono molte “terre di nessuno”. Non si è fatto gran che contro il sistema dei paradisi fiscali che non tocca solo l’elusione fiscale, ma garantisce la necessaria riservatezza ai capitali frutto di illeciti di ogni sorta e gravità – armi, droga, mafia, sfruttamenti di ogni tipo -, con un peso sociale enorme in ogni angolo del mondo. Non si è neppure fatto molto per rivedere un sistema di controlli sullo stato e sull’operatività del settore finanziario, se non in qualche ambito nazionale, fondamentalmente negli Stati Uniti, dove è stato vitale riprendere in qualche modo un controllo della situazione, nel più breve tempo possibile, prima che la caduta libera diventasse irreversibile. Molto meno invece in ambito internazionale e sovranazionale, che è poi quello che conta: la finanza è per sua natura l’attività economica più globalizzata in assoluto.
 
Domani sarà un altro giorno
Un fondamentale problema strutturale è la ormai generalizzata cultura del puntare solo a un risultato nel breve e brevissimo periodo, senza considerarne la sostenibilità. Anche solo nel futuro prossimo, quello relativamente prevedibile. Per sua natura, il credito è anticipare un reddito futuro. Gli ormai famosi mutui subprime si sono generati per la leggerezza con cui banche e finanziarie li hanno concessi per cifre elevate, sproporzionate al reddito e alle potenzialità degli altrettanto incauti che li hanno ricevuti. E soprattutto all’instabilità della loro situazione, fonte ancora più importante dei successivi dissesti.
 
Analogamente, per molti casi di truffe devastanti, una valutazione a freddo più attenta poteva mettere in risalto i rischi già sempre più evidenti col tempo. Ma non meno insidiosa per una conduzione delle aziende anche in un contesto più ordinario è la necessità di raggiungere ad ogni costo e con continuità un cospicuo risultato tale da erogare adeguati dividendi, sostenendo la posizione dei managers che si alternano alla loro guida, specie nei gruppi di maggiori dimensioni. Anche a scapito di scelte più orientate nel tempo a garantire solidità, e mantenere livelli occupazionali.
 
Scelte irrazionali
Raramente però si è indagato su cosa possa essere alla base della ‘irrazionalità’ con cui clienti e operatori finanziari da vari anni si sono mossi, in uno strano connubio che ha avviato e velocizzato un circolo molto vizioso. Da una parte chiedere credito pur non essendo in grado di restituirlo o quanto meno con grande incertezza, e ottenerlo (in barba al noto principio che per avere soldi da una banca occorre dimostrare di non averne bisogno).Dall’altra speculare senza una prospettiva di successo nel lungo termine. In entrambi i casi, l’irrazionalità è stato anche il tentativo reiterato di rinviare al futuro le conseguenze di cambiamenti di scenario vasti e profondi, piuttosto che adattarvisi e reagire creativamente.
 
In poco tempo – solo venti anni fa cadeva il Muro di Berlino – il mondo ha attraversato una rivoluzione epocale, con una globalizzazione a ritmi impensati che ha ridistribuito produzione, redditi e ricchezza dagli Stati Uniti e dall’Europa principalmente verso l’Asia. Molto significativa sia per aver abbattuto in molti comparti la competitività dei produttori dei Paesi occidentali e del Giappone, che per aver concorso a aggravare a livello mondiale una sovra capacità produttiva in diversi importanti settori.
 
Nel frattempo, nell’arco di trent’anni, il sistema economico dei Paesi industrializzati – Europa, Stati Uniti, Giappone – ha conosciuto anche un’altra evoluzione epocale, attraverso una progressiva concentrazione degli operatori attraverso fusioni e acquisizioni, tanto nella produzione che nel terziario, in un numero ormai molto ristretto di enormi gruppi di aziende. Interi settori sono ormai accaparrati e gestiti da pochissimi tra loro, che diminuiranno ancora: pensiamo all’auto, all’aerospaziale, all’elettronica, al petrolio e alle materie prime, ma anche all’alimentare, all’agroindustria e ai suoi prodotti, e così via. I marchi di fabbrica, nella loro diversificazione, tendono a dissimularlo al consumatore, ma dietro decine di essi si cela un unico gruppo.
Col risultato che il libero mercato si gioca in molti settori tra i pochi attori realmente importanti rimasti.
 
Mauro Palombo

 
 
 
 
 

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