Fratelli tutti

Pubblicato il 23-12-2020

di Claudio Monge

La fratellanza, lo sappiamo è un tema essenziale per papa Francesco, evocato fin dal giorno della sua elezione, quando chinando il capo davanti alla folla radunata in piazza San Pietro espresse un desiderio: «Preghiamo sempre l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza». Molte volte, nell’anno e mezzo intercorso tra il documento di Abu Dhabi, Fratellanza umana. Per la pace mondiale e la convivenza comune del febbraio 2019 e la recentissima enciclica «Fratelli tutti» pubblicata il giorno della festa di san Francesco d’Assisi, mi è stato chiesto se questi pronunciamenti del Papa hanno cambiato lo sguardo dei musulmani turchi nei miei confronti e nei confronti della nostra comunità istanbuliota.

Ho dovuto ricordare che entrambi i documenti sono passati praticamente inosservati, eco lontano per addetti ai lavori ma, nello stesso tempo, se guardiamo bene al contenuto di quegli scritti, la grande questione non è tanto il conoscerli come riferimento bibliografico, quanto riscriverli nel quotidiano. Il tema è davvero cruciale e pertinente! Una sfida affascinante che costituisce il senso stesso del nostro stare in quelle che Pierre Claverie definiva le linee di frattura dell’umanità. È evidente che, là dove viviamo, l’impegno prioritario a difesa della sacralità e dignità umana sia moneta comune nelle nostre relazioni, e questo indipendentemente dalle nostre appartenenze religiose o confessionali.

Ai più può sembrare un discorso romantico, decisamente opzionale nella misura in cui o ci si sente largamente autosufficienti nel proprio mondo o, all’opposto, eccessivamente minacciati e condizionati da paure che consigliano chiusure preventive e trinceramenti difensivi. In entrambi i casi credo ci sia un preoccupante deficit di realismo, dei limiti enormi nella lettura del tempo complesso che stiamo attraversando.

A certe latitudini, i segni di quello che a più riprese papa Francesco ha definito un «cambiamento d’epoca» sono forse più evidenti e, soprattutto, lo sguardo è più allenato a scorgerne le conseguenze sul quotidiano. Quello che ci dice il papa è che la Chiesa non è lì per se stessa, ma che è lì per fare fraternità, per «andare verso» e questo non per paternalismo (che potrebbe facilmente associarsi ad un senso di superiorità) ma perché ci diciamo credenti in un Dio che ama senza distinzione le sue creature. Ciò significa che siamo chiamati a costruire fraternità, anche con chi crede diversamente (o che eventualmente non crede affatto), non perché siamo buoni ma perché Dio è Padre di tutti! Se capiamo questo, la fratellanza non può avere limiti per noi e, tanto meno, può essere un limite: è respirare al ritmo del respiro di Dio e vivere la vera “cattolicità” dell’essere Chiesa, cattolicità senza arroganza conquistatrice ma ricca di benevolenza. All’interno di questa prospettiva si innestano due altre immediate constatazioni.
La prima è che la costruzione di una vera “fraternità senza barriere” implica il superamento del semplice pluralismo di fatto: l’accontentarsi di vivere in una società planetaria come ambito di una molteplicità di prospettive
irriducibili che convivono in modo non belligerante, ma in fondo anche mutualmente indifferenti. Nella prospettiva della fraternità universale io sono costituito responsabile della gioia dell’altro, senza renderlo tuttavia ostaggio del mio interessamento.
Una seconda constatazione è che non esiste nessuna teologia (un ben fondato discorso su Dio) che non sia radicata su una solida antropologia (un serio discorso sull’essere umano e sulla sua sacralità). Le convinzioni religiose riguardo al senso sacro della vita umana ci permettono di riconoscere il valore fondamentale della comune umanità, in nome del quale si può e si deve collaborare, dialogare, perdonare e crescere, costruendo quotidiana prossimità.

Per chi come noi vive al cuore di un “oceano islamico” questa è anche la via maestra per uscire dalle catacombe del “trinceramento confessionale”. In questo duro tempo di pandemia globale, lo constatiamo al quotidiano negli “incontri di pianerottolo e di quartiere” (mascherina alla bocca), nell’accentuata attenzione a sostenere i più anziani, impossibilitati ad uscire di casa nei loro acquisti indispensabili o ancora nel rinunciare ad ore determinate della giornata all’uso di un piccolo giardino privato per invitare la giovane famiglia turca o quella africana a farvi scorrazzare un po' i bambini, messi alla prova dall’interminabile confinamento nelle quattro mura di casa. Certo, credere davvero ad una vocazione comune alla fraternità universale implica la rivoluzione del nostro sguardo sul mondo: da economicistico a mistico. È un lungo cammino e non siamo che all’inizio.


Claudio Monge
NP novembre 2020

 

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