GUARIRE LA MEMORIA

Pubblicato il 31-08-2009

di Andrea Gotico


La via per la riconciliazione nelle culture africane ha un suo tracciato specifico, che ha molto da insegnarci. Un tracciato che permette anche alle memorie più cruente di essere affrontate e curate, come si è fatto in questi ultimi anni in numerosi Paesi. Anna Pozzi, collaboratrice di redazione del mensile “Mondo e Missione” e di altre riviste, “esperta d’Africa”, ne ripercorre luci ed ombre.

di Anna Pozzi
Anche se l’Africa resta il continente con il maggior numero di conflitti e situazioni di instabilità e crisi, sono molti i Paesi che stanno sperimentando vie nuove e faticose, imperfette ma importanti, di pace e riconciliazione.
Un punto di riferimento, pur con tutte le sue specificità, può essere individuato nel modello sperimentato in Sudafrica, all’indomani della fine del regime razzista e segregazionista dell’apartheid, nel 1994. Qui, il lavoro imponente della Commissione per la verità e riconciliazione non si è concluso semplicemente con la presentazione del rapporto, ma continua ancora oggi a ispirare una moltitudine di progetti ed esperienze molto variegate. Che spesso, però, hanno un comune denominatore, o meglio una filosofia di fondo, quella dell’Ubuntu.

Ubuntu in questa parte dell’Africa sta a significare il contrario dell’individualismo occidentale: definisce l’esistenza della persona in relazione con gli altri e in un contesto di comunità con le sue reti di prossimità e interdipendenza. In questa logica, è solo attraverso un lavoro comunitario che è possibile restituire dignità alle vittime e reinserire i colpevoli nella società, consapevoli delle loro colpe e capaci di riscattarle.

Molto si è lavorato e si continua a farlo sulle responsabilità individuali e collettive, sulla memoria delle persone e dell’intera nazione. Una memoria da far emergere e da condividere per poterla curare e per promuovere cambiamenti reali e significativi per tutto il Paese. “Perdonare ma non dimenticare”, ha ripetuto all’infinito il leader sudafricano Nelson Mandela. Dal canto suo, l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, presidente della Commissione per la verità e riconciliazione, ha sostenuto con forza che “non esiste avvenire senza perdono. Ma per perdonare bisogna sapere ciò che è accaduto”.

Quella scelta dal Sudafrica è una delle strade possibili, fortemente radicata nel contesto culturale e sociale di quel Paese, segnata dalla volontà di far emergere la verità sul passato, per poter costruire percorsi di convivenza pacifica e di riconciliazione per il futuro. Dal punto di vista della giustizia è stato privilegiato un modello di tipo redentivo e riparatorio, tipico dei sistemi tradizionali africani, che mira a reintegrare nella comunità sia le vittime che gli aggressori. Per converso, è stato sacrificato il desiderio di molti di ottenere una giustizia penale punitiva. Così come non è stato portato avanti adeguatamente un processo di riforme strutturali, necessarie per cancellare le profonde ineguaglianze socio-economiche, che ancora permangono nel Paese e che di fatto favoriscono il mantenimento di un sistema di segregazione non più basato sulla razza ma sulla discriminazione economica e sociale. Che, peraltro, riguarda sempre e soprattutto i neri. Queste zone d’ombra, tuttavia, non possono oscurare del tutto il grande lavoro che tuttora si sta svolgendo e che continua a coinvolgere varie componenti della società sudafricana.
“Raggiungere oggi, nel presente, il massimo della verità possibile è la sola garanzia di creare la migliore democrazia per il futuro”. Così commentava la scrittrice sudafricana Nadine Gordimer, Premio Nobel per la letteratura.

Purtroppo, questo principio non ha trovato la stessa accoglienza altrove. In Algeria, ad esempio, dove si sta tentando di uscire dalla tragedia del terrorismo islamico, che ha insanguinato il Paese per tutti gli anni Novanta - provocando oltre 200 mila morti - il governo si sta orientando verso un processo di riconciliazione che non fa memoria e dunque non la guarisce.
Nel settembre 2005 è stato indetto un apposito referendum, che ha registrato una massiccia partecipazione popolare e il 97,4 per cento dei consensi al progetto del presidente Abdelaziz Bouteflika della Carta per riportare la pace e la riconciliazione. Si tratta di una sorta di estensione della legge sulla concordia civile del 1999, che prevede misure di amnistia per coloro che consegnano le armi e rinunciano alla violenza, esclusi i responsabili di massacri collettivi, stupri e attentati dinamitardi. Di fatto, questo risultato si è trasformato in una sorta di auto-legittimazione da parte del governo per non fare nulla o quasi. O meglio, per guardare al futuro senza fare seriamente i conti con il passato.

Oggi in Algeria li chiamano gli événement (gli avvenimenti) quegli anni di sangue, con l’adozione collettiva di un termine neutro, quasi per esorcizzare, almeno nel linguaggio, l’orrore di quelle stragi. Gli événement appartengono a un passato recentissimo dell’Algeria e continuano a gravare come un’ombra funesta sul suo presente, anche se il governo insiste su una riconciliazione imposta dall’alto, quasi per decreto, che non permette di far emergere la verità, e di conseguenza di guarire la memoria.
“I fantasmi del passato vanno guardati in faccia e affrontati - sostiene invece l’arcivescovo di Algeri, mons. Henri Teissier, e come lui alcune espressioni della società civile -. Solo così potranno essere davvero sconfitti. E solo così si potrà promuovere un autentico atteggiamento di ascolto e dialogo, non solo tra musulmani e cristiani, ma anche tra le diverse componenti della società algerina”.

Il tema del dialogo è stato più volte ribadito e auspicato con forza anche dai vescovi della Repubblica Democratica del Congo, che hanno accompagnato con un grande sforzo educativo e formativo gli anni della transizione sino alle elezioni legislative e presidenziali, che si sono tenute lo scorso anno, le prime democratiche da quando il Paese è indipendente. Un evento di portata storica che apre una nuova difficile fase di ricostruzione di un territorio immenso e di una popolazione devastati non solo dalla guerra, ma anche dall’odio e dalle divisioni interne.

“Privilegiare le vie del dialogo, della concertazione e della pace”, è stato il messaggio che la Conferenza episcopale congolese ha rivolto ai politici locali, e in particolare al presidente Joseph Kabila, che si trova oggi di fronte ad una grande sfida: quella appunto della pace e dello sviluppo. La Chiesa cattolica, che più di chiunque altro, attraverso le Commissioni giustizia e pace delle varie diocesi e parrocchie, è stata in prima linea nel preparare e nell’accompagnare questo cammino, ha indicato alcune priorità: prima fra tutte la riconciliazione, “Riconciliazione tra la popolazione e i suoi dirigenti, tra i dirigenti stessi e tra la stessa popolazione”. Riconciliazione, hanno ribadito i vescovi, come presupposto per il consolidamento della pace e della concordia nazionale.
Anche in un altro Paese, il Sudan - specialmente nelle regioni meridionali - la Chiesa ha avuto ed ha un ruolo importante nel creare percorsi concreti di pace e una cultura di non violenza, dopo che all’inizio del 2005 sono stati siglati gli accordi che hanno messo fine alla guerra che opponeva il Nord al Sud da più di vent’anni.
Si tratta di un percorso difficile e faticoso, sottolinea Cesare Mazzolari, vescovo di Rumbek, testimone di questi tragici anni di guerra civile e ora infaticabile artigiano di pace. “C’è molta delusione e disillusione tra la popolazione - racconta il vescovo recentemente di passaggio in Italia -; ci aspettavamo grandi cose dalla pace, ma quasi nulla è cambiato. Il governo del Sud è distante dalla sua gente, mentre quello di Khartoum non perde occasione per portare avanti un progetto di infiltrazione islamica e per fomentare divisioni e conflitti. E così ogni giorno assistiamo a scontri tra etnie e clan, che creano ulteriori divisioni e sofferenza in una terra dove c’è da ricostruire tutto”.

Il problema è che qui - come in molti altri contesti potenzialmente a rischio - le armi non mancano mai. “Parlano di 200 mila ex soldati non disarmati solo nella mia diocesi”, afferma mons. Mazzolari, che è rientrato in Sudan a metà novembre per presiedere uno dei molti workshop sulla riconciliazione che sta organizzando a Rumbek. “È importante - afferma convinto - non solo la ricostruzione materiale, ma anche quella spirituale. Ed è importante continuare ad essere segni di speranza, in mezzo a questa umanità sofferente, per costruire insieme cammini di identità, di pace e di futuro”.

Anche in Rwanda, ci stanno provando da oltre dieci anni, dall’orrendo genocidio del 1994 che spazzò via oltre 800 mila persone. Ma lo stanno facendo seguendo percorsi di giustizia punitiva, che non solo non riescono ad essere giusti, ma hanno innescato spirali di odio e vendetta.
Dopo dieci anni, un intero popolo sta rielaborando un lutto devastante. Mentre verità e riconciliazione restano il traguardo di un cammino ancora tutto in salita.

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