IRAN: Lolita a Teheran

Pubblicato il 31-08-2009

di Carlo Degiacomi


Una voce forte interna di dissidenza: quella di una donna contro il regime autoritario e dittatoriale della Repubblica islamica.

di Carlo Degiacomi


Sempre a proposito di Iran, segnaliamo un libro tradotto in italiano da Adelphi: si tratta di “Leggere Lolita a Teheran” di Azar Nafisi, che ha insegnato in vari atenei della capitale iraniana, prima di essere espulsa dall'Università nel 1997 per essersi rifiutata di portare il velo. Oggi insegna Letteratura inglese alla Johns Hopkins University.

Una voce chiara e netta di dissenso
Il libro pur presentandosi a metà tra un romanzo e un saggio in realtà copre molte lacune. La prima è certamente quella di una voce forte interna di dissidenza: quella di una donna contro il regime autoritario e dittatoriale della Repubblica islamica dell’Iran.

Il tema della libertà e della possibilità di cercare di realizzare i propri sogni è un tutt’uno con la denuncia delle assurde pratiche dei regimi assoluti. Non a caso il libro si apre con la citazione di un grande e poco conosciuto scrittore polacco, Czeslaw Milosz, che negli anni settanta ha dedicato molti libri ad analizzare i meccanismi perversi della dittatura nei Paesi comunisti. “A chi raccontiamo ciò che è accaduto sulla terra, per chi sistemiamo ovunque specchi enorme, nella speranza che riflettano qualcosa e non svanisca?”

Lacune gravi di informazione in Italia
La seconda lacuna coperta da questo libro coraggioso contro la catechesi islamica è la disinformazione con cui i media italiani hanno bellamente ignorato la vita e le condizioni delle persone in Iran e in particolare delle donne in tutti questi anni, il mix velenoso e pericoloso di antiamericanismo e di anti-Israele presente nella retorica (che è difficile chiamare cultura) dei fanatici di Teheran.

Pensate ai giornali quotidiani o alle riviste che avete letto in questi anni: avete trovato letture vere e attente della vita quotidiana del popolo iraniano? Vi ricordate una denuncia forte della dittatura, dei delitti e degli assassini compiuti dal regime iraniano e dai suoi rigidi custodi discepoli di Khomeini? Chi è attento oggi ai fermenti notevoli presenti nelle Università e tra le donne iraniane in modo da aiutarci a capire perché questo Paese prima o poi salterà in aria (e sono così ottimista da pensare che salterà) ribellandosi ad anni di oscurantismo?

Quello che non fanno i nostri inviati lo fa questo libro. E lo fa in modo curioso: attraverso il racconto di un seminario casalingo sulla letteratura americana. L’amore per la letteratura è il filo rosso di tutto il libro e anche dell’impossibilità di interdirla da parte di chiunque, anche da parte di un intollerante regime islamico.

Un seminario privato con sette ragazze

Facciamo parlare un po’ il libro: “nell’autunno del 1995, dopo aver dato le dimissioni dal mio ultimo incarico accademico, decisi di farmi un regalo e di realizzare un sogno. Chiesi alle sette migliori studentesse che avevo di venire a casa mia il giovedì mattina per parlare di letteratura. Erano tutte ragazze, dato che per quanto si trattasse di innocui romanzi, insegnare a una classe mista in casa propria sarebbe stato troppo rischioso.”

Libri famosi e meno famosi, in tutti un modo di interpretare
Tra i libri citati da Azar Nafisi ce ne sono di famosi e conosciuti ma anche di poco noti.

“Invito a una decapitazione” di Nabokov (famoso per il libro Lolita) comincia con l’annuncio che il suo fragile eroe Cincinnatus C. è stato condannato a morte perché colpevole di opacità in un Paese in cui a tutti i cittadini è richiesto di essere trasparenti.

La caratteristica principale della prigione è l’arbitrarietà.
L’unico privilegio di un condannato è di poter conoscere il momento della sua morte e invece in questo caso i carnefici gli negano anche questo e trasformano ogni giorno nel giorno della sua esecuzione. Scrive Nafisi: “chi viveva nella Repubblica Islamica dell’Iran era in grado di capire al volo il risvolto tragico e al contempo assurdo di quel tipo di crudeltà. Era la stessa che subivamo anche noi ogni giorno e per sopravvivere dovevamo prenderci gioco della nostra infelicità”.

“Vivevamo in una cultura che negava qualsiasi valore alle opere letterarie, a meno che non servissero a sostenere qualcosa che sembrava più importante: l’ideologia. Il nostro era un Paese dove tutti i gesti, anche quelle più privati, venivano interpretati in chiave politica. I colori del mio velo o la cravatta di mio padre erano un simbolo della decadenza occidentale e delle tendenze imperialiste. Non portare la barba, stringere la mano a persone dell’altro sesso, applaudire o fischiare gli incontri pubblici erano considerati atteggiamenti occidentali e quindi decadenti, parte del complotto imperialista per distruggere la nostra cultura”.

Diritto all’immaginazione
Nelle ultime pagine la scrittrice svela il suo amore per l’Iran come il suo amore per la letteratura: nell’epilogo senza mezzi termini ricorda ai lettori che oggi è ancora tutto vero, è ancora tutto così come ha raccontato nel libro. “Le retate, gli arresti e le esecuzioni pubbliche continuano. Eppure c’è una richiesta sempre più forte di libertà…”.

Nell’ultima pagina scrive un suo desiderio: che alla Carta dei Diritti dell’Uomo venga aggiunta la voce: diritto all’immaginazione. “Ormai mi sono convinta che la vera democrazia - scrive - non può esistere senza la libertà di immaginazione e il diritto di usufruire liberamente delle opere di fantasia”. E poi ancora: “per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma ed espressione ai propri mondi privati, ai propri sogni, pensieri e desideri; bisogna che il tuo mondo privato possa sempre comunicare col mondo di tutti. Altrimenti, come facciano a sapere se siamo esistiti?”.

Seguiamo una donna in Iran
“Pensiamo a una qualsiasi delle sette ragazze del mio seminario: Sanaz ad esempio, mentre esce da casa mia, e seguiamola fino a destinazione. Saluta e si rimette la veste nera sopra i jeans e la maglietta arancione e si avvolge il velo attorno al collo per coprire gli orecchini d’oro. Fa sparire le ciocche ribelli, si ferma un attimo sul pianerottolo e si infila i guanti di pizzo nero per nascondere le unghie smaltate.

Osserviamola scendere le scale e arrivare in strada. Forse vi sarete accorti che i suoi gesti, la sua andatura sono già cambiati. Non cammina ben eretta, procede a testa bassa senza guardare nessuno negli occhi. Il suo passo è svelto e deciso. Le strade di Teheran e delle altre città iraniane sono pattugliate da miliziani armati, drappelli di quattro uomini e donne, su fuoristrada Toyota bianchi, a volte seguiti da minibus. Li chiamano il sangue di Dio.

Loro compito è di accertarsi che le donne come Sanaz si vestano in maniera consona, non si trucchino, non si mostrino in pubblico in compagnia di uomini che non siano i rispettivi padri, fratelli o mariti. Sanaz passerà sicuramente davanti ai muri ricoperti di scritte con citazioni del “Partito di Dio”: il velo protegge la donna… Se decide di prendere l’autobus, Sanaz non può sedersi dove vuole, deve salire dalla porta posteriore e mettersi nelle ultime file, quelle destinate alle donne.

Dopo la rivoluzione l’età minima per sposarsi è stata abbassata dai 18 ai 9 anni ed è stata reintrodotta la lapidazione per le adultere e le prostitute…
Nel corso di una ventina di anni le strade si sono trasformate in zona di guerra e le giovani donne che disobbediscono alle regole vengono caricate a forza nelle auto della polizia, portate in prigione, frustate, multate, umiliate, e costrette a pulire i gabinetti; poi appena escono tornano alla vita di sempre.”.

Glielo abbiamo permesso
“Un severo ayatollah, un sedicente filosofo, si era posto alla guida del Paese in nome di un passato, che sosteneva, ci era stato rubato. E ora voleva crearci tutti di nuovo, a immagine e somiglianza di quel passato illusorio. Poteva esserci di consolazione – e avevamo davvero voglia di ricordarcelo? - che ciò era accaduto perché noi glielo avevamo permesso?”.

Buona lettura!

di Carlo Degiacomi
da Nuovo Progetto ottobre 2004



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