L’inverno più lungo

Pubblicato il 07-02-2021

di Gian Mario Ricciardi

Mi son trovato, in uno dei giorni del lockdown, davanti ad una zucca, ma non quella di Halloween, cancellata, per fortuna, dall’emergenza. No, una zucca come quelle di una volta: grande come un cavolo gigante, piena di protuberanze, assemblata perfettamente, fatta a spicchi regolari, simili a fette d’anguria, colma di segni di una natura bella, buona, sana. L’ho osservata a lungo. Molto a lungo.

Ho visto, riflessi, i valori di ieri: pazienza, silenzio, sostanza, creatività, contemplazione, povertà e ricchezza, dignità e umanità, fede e speranza. Sono quelli dei nostri padri e delle nostre madri che, nati in guerra o subito dopo, hanno respirato la miseria, il nulla che c’era in tavola da mangiare (“il profumo dell’acciuga”), i trasporti inesistenti, i pomeriggi e le sere senza fine. Ma mi sembrava di vedere la schiettezza dei sorrisi dei bambini o degli adulti, dei più abbienti o dei senza niente. Scorgevo i loro occhi radiosi di felicità; sentivo le risate per storie vecchie di secoli. Avevano tutti, o quasi, gli zoccoli nei piedi: quelli rimodellati e risuolati dal ciabattino con un pezzo di pelle dura, fermato con chiodi grezzi. Ma erano tutti sereni, bimbi e adulti: avevano capito che, come la zucca, bisogna saper aspettare tanto: minuti eterni, ore infinite, giorni interminabili per poi poter raccogliere il frutto e trasformarlo in minestre, risotti, fritti, vellutate, ripieni per agnolotti e dolci.

Che giorni quelli! Nessuno mai vorrebbe riviverli per non più rivedere gli uomini, d’inverno, passare il pomeriggio a battere con una pietra la falce per farla diventare più tagliente per l’estate oppure immergersi in quelle ore infuocate e spoglie durante le quali s’andava in campagna con acqua e aceto nel tascapane. Nessuno di noi, inoltre, vorrebbe riassaporare quegli inverni passati con i vestiti, specie i cappotti, rivoltati, accorciati o allungati e le borse di stoffa ritagliate negli angoli di asciugamani sdruciti.
L’ho osservata a lungo la zucca, molto a lungo.
Ho visto l’impazienza della nostra generazione che non ha conosciuto né la miseria, né le guerre, né la malinconia di quei “san Martino” e neppure i “traslochi del Novecento” quando, su un carretto, s’andava verso un’altra cascina con pochi soldi e tanto magone. Oggi, quest’impazienza esistenziale ci impedisce di vivere il nuovo “coprifuoco” come una strada per uscire dalla guerra batteriologica che stiamo vivendo. Si corre, si sorpassa con l’auto senza un perché, si impreca, si protesta (a volte anche giustamente), ci si arrabbia per nulla e si fa di peggio. Impariamo dai nostri vecchi, da quella generazione che se n’è andata sola, come a Bergamo, sui camion militari. Impariamo l’arte sopraffina della pazienza. Impariamo dalla zucca che sta lì nel prato, abbandonata da tutti per settimane e mesi, ma intanto non rinuncia a crescere, ad acquistare in sapore e forma, a diventare matura, nella discrezione e nel raccoglimento.
Gli stessi stati d’animo che, nelle surreali giornate del coronavirus, dovremmo imparare a cogliere, sono: il silenzio davanti al mondo, la ricchezza e la bellezza della vita, il sorriso e l’innocenza di un bambino, il mistero stupendo del respiro, la speranza della fede. È un bagno di umiltà, di essenzialità, di condivisione, di fraternità, di amore per la natura, così ben colto da papa Francesco nella Laudato si'.
Siamo prigionieri in casa ma passerà con la paura, non possiamo correre chissà dove per gli acquisti ma abbiamo l’essenziale e forse ricominciamo ad apprezzarlo di più: come la manna nel deserto, come la zucca, frutto povero ma vivo, bello, nutriente che ha superato, nel suo percorso, tutto, dalla pioggia alla nebbia, dalla siccità alla neve per arrivare lì, dove l’ho trovata, immagine vera della vita. Mi ricorda il grande pezzo di legno che mio nonno metteva nel camino ’l suc ’d Natal, prima di andare alla messa di mezzanotte. Quando si tornava aveva riempito le stanze di caldo e di luce come le lucerne delle vergini sagge della parabola. Come la zucca, anche quel pezzo di legno ci aiuterà ad accogliere il Signore che viene in questo lungo inverno, così straordinariamente povero e scarno, ma vero.


Gian Mario Ricciardi
NP dicembre 2020

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