Parole e creatività d’Oriente

Pubblicato il 24-04-2018

di Sandro Calvani

di Sandro Calvani - Serendipità, quando il linguaggio unisce popoli e continenti.
Capita spesso nelle relazioni internazionali di qualunque tipo di incontrare persone che a prima vista sembrano molto diverse, per il colore della pelle, per le forme di saluto, per il modo come sono vestite. Alcuni hanno l’impressione che la diversità sia dovuta ai gruppi etnici di appartenenza o alla razza. Sono percezioni senza fondamento scientifico: gli esperti di genetica umana hanno dimostrato recente- mente che nella specie umana le razze in realtà non esistono. Il dna dentro ai cromosomi di ciascuno di noi è indistinguibile tra gruppi diversi di persone ai quali attribuiamo la definizione scientificamente errata di razza.

Chi vuole comunque rifugiarsi nel suo piccolo villaggio, continua allora ad usare altri argomenti, come le tradizioni popolari, le diversità dei gusti e della cucina, i dialetti antichi, le religioni, estrapolando poi da quelle osservazioni – a prima vista convincenti – che una o l’altra razza, o una nazione stiano scomparendo. Ma non è solo la genetica a dimostrare che questi argomenti tendenti a dividerci non hanno ragion d’essere.

È facile dimostrare che in realtà le culture e i popoli hanno sempre comunicato per millenni, anche senza usare i passaporti che non erano richiesti fino alla prima guerra mondiale. Uno degli indicatori più significativi è il gran numero di parole che usiamo tutti i giorni che vengono dall’Estremo Oriente, dal Giappone, dalla Corea, dalla Cina, oppure dall’Iran o dall’India. Non sono solo centinaia di parole che definiscono alimenti come lo zucchero e le ricette alimentari che riteniamo nostrane, nomi di frutta e verdure come limone, pistacchio e spinaci che sono parole persiane; sono anche decine di giochi, sport e musiche, compresi i nomi di vari strumenti come per esempio il gong e anche elementi fondamentali del linguaggio e della vita comune. Vengono dall’antica Persia tre nomi di colori come l’azzurro, il lilla e lo scarlatto.

Ancora dall’Iran vengono calendario, bazar, bronzo, caraffa, scacchi, dogana. Sono indiane e bengalesi parole che indicano cose che crediamo appartenenti alla nostra cultura, come cotone, bungalow, guru, giungla, gimcana, pigiama, babbucce, shampoo, tifone e veranda. Sono orientali i nomi di alcuni tipi di legno, e anche espressioni comuni come lavaggio del cervello o l’esclamazione cin-cin che facciamo in un brindisi.

Credo che la classifica delle parole più creative di origine orientale la vinca facilmente la parola serendipità, serendipity in inglese; Umberto Eco la tradusse così nel 1985, nella sua prima Bustina di Minerva sulla rivista L’Espresso. Essa può riferirsi al trovare qualcosa di prezioso mentre si cerca qualcosa di completamente diverso; oppure trovare qualcosa che si andava cercando, ma in un luogo o in un modo del tutto inaspettati.

Serendipità implica sempre una scoperta positiva. Per il suo creatore, lo scrittore inglese Horace Walpole, essa significa un caso fortunato; la sociologa Marina Innorta ha osservato correttamente che nella serendipità la miscela esatta di sagacia e di fortuna varia con il variare dei contesti in cui la parola viene usata e ha aggiunto che «la serendipità non è una semplice coincidenza fortunata. Ha bisogno di sagacia. E sagacia significa perspicacia, capacità di valutare tutti gli elementi di una situazione, di andare all’essenza di qualche cosa».

Il famoso studioso giapponese di management e strategia Ikujiro Nonaka ritiene che la serendipità sia una con- dizione essenziale nel creare nuova conoscenza e innovazione, attraverso la creatività e l’intuizione contenute nella serendipità. La parola serendipità nacque in inglese ma discende da una fiaba persiana riferita da Michele Tramezzino ne I tre prìncipi di Serendippo, pubblicata a Venezia nel 1557, con autorizzazione del papa Giulio III. Sarandip in persiano e in arabo significa Sri Lanka.

I tre protagonisti della fiaba mostrarono una grandissima sagacia e intuizione. Secondo Umberto Eco serendipità è accettare la sfida dell’incertezza, fare qualcosa di molto diverso, senza es- sere certi che funzioni: «il pensatore creativo è colui che decide di fare, ma scientemente, quello che Cristoforo Colombo ha fatto per sbaglio [mentre pensava:] visto che non trovo una risposta a questo problema, perché non cerco la risposta a un altro problema, magari del tutto stravagante?».

Sandro Calvani
ORIENT EXPRESS
Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

 

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