Presto

Pubblicato il 03-09-2020

di Marco Grossetti

Presto è desiderio fuori controllo di un innamorato che aspetta di conoscere il suo destino dopo essersi dichiarato. Dopo niente sarà più come prima. Presto è volontà ferma di cancellare un’attesa inopportunamente lunga e di poter baciare la terra che sa di salvezza, finalmente salda sotto i nostri piedi dopo una esagerata avventura. Presto è augurio che ci facciamo sotto un temporale correndo in balia del cielo a cercare protezione. Al riparo, possiamo giocare a soffiare via le nuvole scure e cattive che si erano radunate sopra la nostra testa e dentro il nostro cuore, fare una danza della pioggia all’incontrario, urlare contro il cielo invocando la quiete al posto della tempesta.

Presto è istinto di sopravvivenza, è parola che capiscono anche i bambini, scusa dei grandi per capricci e piagnucolii di ogni cucciolo di uomo che rompe e pretende, non sopportando più il tempo in cui è imprigionato. Proprio come noi ora, mentre cerchiamo di destarci senza il bacio di una principessa dal tempo di sospensione e reclusione in cui siamo rimasti confinati per il bene di tutti, nel rispetto del sacro principio che ha regolato e rovesciato il senso delle nostre vite: nessuno incontri nessuno.

Presto. Ce lo diciamo con le parole oppure senza, ad ogni sguardo che possiamo ancora scambiarci, sopra la mascherina, dietro ad uno schermo o mostrando un sorriso fuorilegge facendo finta che niente stia succedendo, incuranti che il tempo della guarigione non sia ancora arrivato a compimento. Presto disturba ogni video-chiamata, rallenta gli appuntamenti su houseparty, interrompe la comunicazione di ogni app che ci permette di sentirci vicini anche se siamo lontani.

Lo sospiravamo quando la sirena di un’ambulanza riempiva di silenzio e di terrore la strada dove abitiamo, lo imprechiamo ad ogni cosa rotta in casa dai nostri bambini. Quando il loro sguardo di rimprovero e di tristezza per lo stato in cui sono ridotti è molto più forte di tutte le sgridate possibili, il tempo che gli stiamo negando molto più prezioso di qualsiasi cosa che possa andare in frantumi.

La scuola continua a distanza perché non si può rinviare la seconda elementare o l’esame di terza media a data da definirsi come se fossero una qualsiasi Olimpiade. Basta fare finta che tutti abbiano un ufficio con dentro un papà e una stampante, una nuova compagna di classe che assomiglia tanto alla mamma con il wi-fi incorporato, il prof abbastanza smart, un genitore a caso a casa, che riempie i vuoti di un bambino che deve fare da solo e cerca ingenuamente nel vuoto una mano da stringere, senza trovarla.

Cosa sono dei bambini senza maestri in un tempo di malati senza dottori e di morti senza funerali? Non ci siamo mai preoccupati che non nasciamo tutti liberi e uguali, dobbiamo proprio farlo adesso? Dire che andrà tutto bene senza nessun riferimento temporale è più rassicurante se non è in alcun modo possibile prevedere quando l’arcobaleno prenderà il posto delle nuvole nere. Non sentite come suona bene? E se proprio non può tornare tutto come prima, almeno qualcosa.

Imploriamo per i bambini ore d’aria come per i carcerati, per dare a turno a tutti la stessa meritata consolazione. Manifestiamo adesione spontanea e volontaria all’unico gioco a cui possiamo partecipare per evitare il nostro stesso game-over. Non ci sono mostri da combattere, ma distanze da mantenere, perché il mostro potremmo essere noi. Nessuno si accorgerà del cambio d’espressione sul nostro viso, nascosto da una costosissima mascherina, ultimo modello della nuova collezione primavera-estate. Parlano gli occhi, il volto è coperto come quello dei banditi perché senza saperlo e senza volerlo, ognuno di noi potrebbe essere carnefice e assassino della persona che ha davanti, triste avverarsi della massima di un tempo lontano, “homo homini lupus”, che non dà nessuna speranza al nostro autoconvincimento autocertificato di essere diventati meglio di quello che eravamo prima.

Sperando sia presto ora di tornare a casa. Appena lo dice quella cosa che vola in cielo e non è un uccello anche se parla meglio di un pappagallo. È il drone, angelo custode della nostra salute, sorvegliante amorevole dei nostri spostamenti. Dati che vengono intercettati da anni per farci riempire le nostre dolcissime case di cose che non ci servono, senza che ci sia nessun problema di privacy, ma che non possono essere usati per rallentare il contagio e restituirci la vita, per rispetto della nostra stessa privacy.

Bastano pochi secondi, il tempo di fare un tiktok ai giardini. Ci siamo visti per quello, mica perché ci mancavamo. Forse ci manchiamo anche, ma non possiamo dircelo troppo, perché se poi ci separano di nuovo, davvero sarebbe come morire. Quanto abbiamo imparato bene a fare finta di stare bene e ad anestetizzare le nostre paure e i nostri sentimenti. Basta che facciamo i bravi e presto ogni cosa ritornerà al suo posto, avete già dimenticato che andrà tutto bene?

Basta un semplice click che ci proietta magicamente in un’altra dimensione spazio-temporale. Si può andare molto più lontano e si può parlare molto più da vicino da dietro quello schermo. Addirittura senza la mascherina, senza nessun metro e nessuna sedia di distanza. Attraverso quei vetri che sono anche touch. Il piacere dell’unica cosa che possiamo toccare. Dell’unica cosa che dobbiamo necessariamente toccare perché possa funzionare. Comodamente senza guanti.

Marco Grossetti
NP giugno / luglio 2020

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