Scelte di pace

Pubblicato il 17-02-2024

di Rosanna Tabasso

La guerra minaccia la vita di popoli e nazioni, come in Ucraina e in Medio Oriente, ma la violenza che si è generata anche nelle città, nella società, frutto spesso di rabbia, interpella ognuno di noi e ci pone grandi interrogativi.
Nella guerra, come nella violenza diffusa, riconosciamo la medesima radice di egoismo: in un caso pianificata da Stati in nome della propria potenza; nell’altro esercitata da singoli nel disprezzo della vita di persone che trattano come nemiche.
Giustamente protestiamo contro la guerra sapendo di non poterci sostituire ai governi delle nazioni nel decidere di porvi fine.
Ma diciamo anche che la pace dipende da me, perché ognuno di noi ha la possibilità di porre un argine alla violenza che dilaga in mezzo a noi, perché dipende dalle scelte individuali o di piccoli gruppi.
Credere alla pace è scegliere di fermare la violenza, è impedire che la mentalità dell’occhio per occhio degeneri e prepari il terreno a una violenza sempre più strutturata.

Oggi è davvero urgente formare le nostre coscienze a una mentalità di pace che si traduca nei gesti, nelle azioni della vita quotidiana, nel linguaggio che utilizziamo.
Formarci a una cultura di pace fatta di capacità di ascolto dell’altro, di dialogo tra parti opposte; una cultura di pace che riconosca la diversità dell’altro, che contribuisca a superare le divisioni, ad avere la volontà di “vivere bene insieme”.
Consapevoli che la libertà degli altri completa la nostra libertà. Formare le nuove generazioni perché sentano che la pace tra i singoli e tra i popoli è il bene più prezioso da costruire.
Una nostra amica ucraina in questi giorni ci ha scritto: «Non capivo i miei nonni che dicevano sempre che doveva esserci la pace sulla terra. Adesso lo so e lo dirò ai miei figli». Chi ha conosciuto la guerra sa quale bene prezioso sia la pace e quanto occorra investire per preservarla.
Quando scegliamo di credere che la pace è possibile non siamo né illusi né ingenui, siamo invece realisti perché la pace è la sola condizione che può dare un futuro all’umanità e noi scegliamo di investire sul futuro.

In questo Capodanno abbiamo innanzi tutto scelto di essere attivi nel quartiere popolare di Barriera di Milano, dove da qualche mese siamo presenti nella parrocchia Maria Regina della Pace.
Un quartiere vivo, popolato di famiglie, ma anche di tanti anziani, dove molti immigrati regolari si sono inseriti, ma dove si sono formate sacche di persone che vivono allo sbando, tra delinquenza, spaccio e illegalità, tanto da indurre molti a lasciare il borgo vivace e familiare di un tempo.
La pace inizia vicino a noi, dal far ripartire una cittadinanza responsabile che abiti gli spazi abbandonati e li faccia rivivere per un bene comune. Abbiamo scelto di “occupare” con la solidarietà di cui siamo capaci gli angoli più bui del quartiere, per superare risentimento, indifferenza, senso di abbandono e dare speranza alla gente.
Con questo spirito il pomeriggio del 31 siamo scesi in piazza con i bambini dell’Arsenale della Piazza, le famiglie, con i giovani e gli adulti.

Abbiamo occupato il centro di Torino con un serpentone di colori, di suoni, con le testimonianze dei bambini e dei giovani che hanno coinvolto i passanti e i turisti.
Il nostro obiettivo era dire no alla guerra, ripetere le ragioni per cui le armi non vanno costruite: perché uccidono non una ma almeno dieci volte, generano odio che durerà nel tempo e preparano vendetta. Il nostro camminare non voleva essere una marcia di protesta, ma una riflessione sulle ragioni della pace fatta camminando. I bambini l’hanno affermato con le loro parole, l’abbiamo cantato tutti insieme, l’abbiamo detto con gesti concreti come portare uno zainetto di viveri sulle spalle da donare a chi bussa alle porte dell’Arsenale.

Questo Capodanno non potevamo non fare nostra la desolazione di chi è sotto le bombe.
Alle vittime civili della guerra in Medio Oriente abbiamo dedicato il nostro Cenone del Digiuno a cui hanno partecipato quasi mille persone radunate negli spazi dell’Arsenale della Pace.
La serata è stata accompagnata dalle testimonianze di persone che hanno fatto scelte di pace nel loro quotidiano, scelte che non si improvvisano senza preparazione e allenamento.
E poi le storie di Nicolas Marzolino e di padre Ignazio de Francesco (vedi la sua testimonianza nella pagina successiva). Infine abbiamo camminato verso il duomo – con una significativa tappa presso la Piccola Casa della Divina Provvidenza della famiglia del Cottolengo – per la messa di inizio d’anno con l’arcivescovo di Torino.
Abbiamo camminato perché nei governi delle nazioni prevalga la saggezza della pace e la volontà di superare i conflitti.
Così abbiamo potuto rivolgere a Dio la preghiera perché renda possibile ciò che umanamente appare impossibile.


Rosanna Tabasso
NPFOCUS
NP gennaio 2024

 

CULTURA DI PACE
La guerra non nasce da sola. […] Nasce da quel che c’è nell’animo degli uomini. Dalla mentalità che si coltiva. Dagli atteggiamenti di violenza, di sopraffazione, che si manifestano. È indispensabile fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità di pace. Parlare di pace, oggi, non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e concreto esercizio di realismo, se si vuole cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità […]. Perseguire la pace vuol dire respingere la logica di una competizione permanente tra gli Stati che mette a rischio le sorti dei rispettivi popoli. E mina alle basi una società fondata sul rispetto delle persone. Per conseguire la pace non è sufficiente far tacere le armi. Costruirla significa[...] educare alla pace. Coltivarne la cultura nel sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel linguaggio che si adopera. Dipende, anche, da ciascuno di noi.
Dal discorso del presidente Mattarella di fine anno del 2023  

 

Non potete immaginare il Ruanda del 1994. Lo diceva anche la radio: «Uccidete quegli scarafaggi!». Il messaggio era per noi Hutu. Quelli che dovevamo uccidere erano i Tutsi. Tanti lo hanno fatto. Anche io ero una hutu, ma mi rifiutai. Ho messo le persone nel mio campo e le ho nascoste. Ho nascosto anche bambini piccoli rimesti orfani. Per difenderli ho usato anche l’astuzia. La gente del mio villaggio credeva che fossi una sciamana, una curatrice, e stetti al gioco. Quando i miliziani mi accusarono di aver nascosto i Tutsi dissi di controllare, ma di fare attenzione a non essere attaccati dagli spiriti maligni. Perché se io morirò, dissi, morirete anche voi. Ho salvato così almeno cento persone. Mi chiamo Zura Karuhimbi

Della centrale nucleare di Chernobyl conoscevo ogni angolo. Il 26 aprile del 1986 un’esplosione travolse il reattore 4. Fu l’incidente nucleare più grave di tutta Europa. Se non ci fossi stato io però gli effetti sarebbero stati molto più gravi. Per evitare ulteriori esplosioni avremmo dovuto svuotare le piscine di sicurezza sotto i reattori. Non c’era un sistema automatico. Dovevamo immergerci e provare. Anche a costo della vita. Ricordo che con i miei colleghi Valeriy e Boris ci guardammo negli occhi e non ci fu bisogno di parole. Facemmo quello che era giusto fare, il nostro dovere. Con il nostro sacrificio, Chernobyl non si è trasformato in un disastro ancora più terribile. Mi chiamo Alexei Ananenko

L’isola di Lesbo è sempre stato il mio mondo. Non avrei mai immaginato di vedere tutta quella gente. Uomini, donne e bambini. Giorno e notte. Arrivavano in gommone e mezzi di fortuna. Quasi tutti in fuga dalla Siria. Quel giorno arrivò anche una famiglia con un figlio appena nato. I genitori sfiniti, lui così piccolo. Aveva fame. Me lo ritrovai tra le braccia. Gli diedi io il biberon. Da allora per il mondo sono diventata la nonna di Lesbo. Finché ho potuto ho continuare ad aiutare con tutto quello che avevo: cibo, coperte, consolazione. Non credo di aver fatto nulla di eccezionale. É vero, c’è chi non vuole questa gente. Ma dovrebbe venire semplicemente qui, per capire. Mi chiamo Emilia Kamvisi

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