SIERRA LEONE: CRY FREETOWN

Pubblicato il 31-08-2009

di Marco Grossetti


La storia di un Paese che prova a risollevarsi dalla guerra anche per vie inusuali, come la musica dei Sierra Leone Refugee’s All Star, o il coraggio di Sorious Samura, reporter indipendente.

di Marco Grossetti

Un orologio al polso di un ragazzo di Freetown ha le lancette che vanno veloce il doppio rispetto a quelle che scandiscono il passare delle nostre giornate. I giovani che abitano la Sierra Leone, ma non solo loro, fanno meglio a fare due conti: sono ancora bambini ma è come se fossero già adulti, sono ragazzi con in testa tante idee e il destino che li ha fatti nascere qui vuole che il tempo per loro stia già per scadere. La speranza di vita bassissima, meno di quarant’anni, li condanna ad un’esistenza lunga mediamente la metà della nostra. Nelson Mandela afferma che il vero limite dell’Africa non è tanto la mancanza di capacità quanto quella di opportunità. Il principale ostacolo per lo sviluppo della Sierra Leone oggi è proprio quello di un numero incalcolabile di talenti sprecati, cancellati prima dalla guerra ed ora dalla miseria e dall’analfabetismo. Migliaia di ragazzi che sono cresciuti alla sola scuola della violenza, una perdita immensa oltre che per questo Paese e per la sua disperata ricerca di pace, per il progresso dell’intera umanità. cry freetown
La Sierra Leone però non è soltanto la terra della tratta degli schiavi, dei diamanti insanguinati e dei bambini soldato, la sua storia recente è un messaggio di grande speranza per l’intero continente africano: il processo di riconciliazione, il consolidamento delle istituzioni democratiche, la mobilitazione della società civile stanno lentamente portando il Paese fuori dal baratro in cui era caduto dopo la guerra civile scoppiata nel 1991. La pace ha il volto dei tanti giovani che hanno scelto di impegnarsi in prima persona e creduto che era possibile sognare anche in uno dei paesi più poveri del mondo.
All Star Come i “Sierra Leone Refugee’s All Star” (vedi foto a lato), un gruppo musicale nato in un campo per rifugiati, da anni in tour sui palchi di tutto il mondo, o come il cantante Daddy Saj e i rapper del buon governo, che hanno ripreso la secolare tradizione dei griot, cantando nelle tre principali lingue locali, krio, mende e temne, pur avendo come modello di riferimento l’hip hop americano. Prima erano schierati contro la guerra, ed ora fanno fronte comune contro la dilagante corruzione, tenendo viva la coscienza del Paese. Ragazzi che non hanno aspettato con la mano tesa l’aiuto dell’Occidente, ma che al contrario si sono alzati per affermare il proprio diritto a scegliere, per difendere e promuovere la pace nel proprio Paese, dando inizio ad un processo di esportazione che va oltre i diamanti, il petrolio e la frutta esotica per investire la sfera della cultura.
Ad aprire gli occhi al mondo su quanto stava avvenendo in Sierra Leone e a convincere le Nazioni Unite della necessità di intervenire nel piccolo Paese dell’Africa subsahariana era stato Sorious Samura, un altro ragazzo che non ha voluto per nessuna ragione rinunciare al suo sogno. Nel 1991, quando Freetown - la città dove è nato e viveva - è stata messa a ferro e fuoco dai ribelli, aveva 27 anni. Non appena ha capito l’importanza e la tragicità degli eventi è uscito in strada con la sua telecamera amatoriale e ha ripreso l’inizio della guerra. In una situazione di grande instabilità ed insicurezza, privo degli strumenti per documentare cosa stava realmente succedendo, ha preso posto su un aereo con destinazione Londra. Non per scappare da quell’inferno, ma per poterci tornare con le carte in regola per realizzare un vero documentario.
Samura, infastidito ed incredulo di fronte all’indifferenza e all’ignoranza dell’opinione pubblica inglese e mondiale per cui esisteva allora soltanto la guerra dei Balcani, aveva un unico obiettivo: fare conoscere al mondo la tragedia della sua terra, con la speranza che questo sarebbe bastato per convincere la comunità internazionale ad intervenire. Ricorda così la sua vita da immigrato a Londra: “Ho cominciato a lavorare come un matto, volevo a tutti i costi procurarmi l’attrezzatura necessaria per tornare in patria e documentare la guerra del mio popolo, quella di serie B, alla quale nessuno sembrava interessato. Ogni giorno lavoravo in tre posti diversi: dalle cucine dei fast food correvo a scrostare le banchine della metropolitana, per poi infilarmi, stravolto, dietro al bancone di un videonoleggio” (Trincia Pablo, “Reportage dall’inferno”, peacereporter.net 25 ottobre 04). living with collection
Tornato una prima volta in patria nel 1996, indesiderato sia dai ribelli sia dal regime per la sua professione di giornalista, è volato nuovamente verso Londra terrorizzato dalle barbarie e dalla crudeltà della sua gente. Due anni dopo, profondamente frustrato per il fallimento della sua prima missione, è ripartito verso la sua città d’origine, Freetown, con un rinnovato desiderio di accendere i riflettori su una guerra che nessuno voleva rendere pubblica. Di fronte ai ribelli che uccidevano, stupravano, amputavano mani e braccia questa volta non è arretrato, mettendo a rischio la propria vita per realizzare “Cry Freetown” (vedi copertina a inizio pagina), un documento unico, girato dentro un inferno che altrimenti sarebbe rimasto solo una storia a cui sarebbe stato difficile credere. I media occidentali non si erano assolutamente preoccupati della copertura dell’evento, senza le immagini riprese dalla sua telecamera nessuno avrebbe visto, nessuno avrebbe creduto, nessuno avrebbe saputo.
Per Samura questo documentario è stato solo un punto di partenza: mettere in discussione il monopolio dell’informazione in mano ai grandi network, e fare vedere che cosa è veramente l’Africa, dare voce a chi non ha voce, è diventata la nuova ragione della sua vita: “l’Africa continua a essere una terra che quasi nessuno racconta. A nessuno interessa la voce degli agricoltori, dei falegnami, degli accattoni, degli insegnanti, degli attivisti. La voce della gente comune, quella che conosce, a differenza di ministri e capi di Stato, fame, miseria, paura”. Ha iniziato in quest’ottica a collaborare con Ron McCullagh, ex giornalista della BBC, dal 1991 direttore di “InsightNewsTv”, un’emittente che realizza reportage su guerre e popoli dimenticati, che vende poi ai maggiori network mondiali come BBC, ABC e CNN. McCullagh mette in evidenza come “il mondo del giornalismo televisivo sia peggiorato, i servizi sono sempre più corti e superficiali. La domanda: cosa? ha spesso la meglio su un’altra domanda, ancora più importante: perché?”.
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Per questo motivo Samura ha rifiutato le proposte professionali di CNN e BBC: il tipo di lavoro che gli era richiesto, servizi dalla durata di due, tre minuti, non gli permetteva di realizzare quello che lui considera come buon giornalismo, e cioè “mostrare una via d’uscita dal ciclo della violenza comprendendo come ci siamo arrivati all’inizio”. Nel 2000 è volato in Liberia per intervistare l’allora dittatore Taylor. Incarcerato dal regime, è tornato in libertà grazie alle pressioni internazionali e alla mobilitazione di Bill Clinton e Nelson Mandela. Ha allora ricominciato a viaggiare e a riprendere quello che i suoi occhi vedevano: in Exodus from Africa ha ripercorso le rotte dell’immigrazione clandestina, la traversata del deserto del Sahara per raggiungere l’Europa, in Walking on ashes racconta il difficile cammino dell’Uganda verso la pace.
La serie di documentari, “Living with” (vedi copertina sopra), che ha realizzato in seguito lo ha portato a girare dei reality in cui ha condiviso per un certo tempo la vita delle persone che voleva raccontare. Samura chiama questo modo di fare informazione come la “real reality tv”, in opposizione ai reality che riempiono i palinsesti delle nostre televisioni e che hanno recentemente invaso anche l’Africa. Sembra voler ripercorrere le orme del reporter polacco Ryszard Kapuscinski, che andava in prima persona a caccia della notizia, vivendo fianco a fianco con le persone, cercando di imparare per quel che poteva la loro lingua e la loro cultura, incerto ogni volta che doveva scrivere qualcosa che non aveva visto di persona. Mentre attualmente si realizzano articoli su Paesi in cui gli autori stessi non hanno mai messo piede, o nei quali hanno al massimo soggiornato per pochissimo tempo quando i riflettori puntati alteravano la realtà di tutti i giorni, Samura prova a diventare lui stesso quello che vuole rappresentare, condividendo paure, pericoli, disagi e speranze. Per un mese mangia quello che gli altri mangiano o non mangiano, fa esattamente tutto quello che fanno loro.
In “Living with hunger” ha vissuto con i pastori affamati in Etiopia, in un remoto villaggio fuori dal raggio d’azione delle ONG e Nazioni Unite, in “Living with refugee” ha seguito Adam e la sua famiglia, composta da due mogli e otto bambini, nella loro estenuante fuga dal Darfur verso un campo per rifugiati in Ciad, in “Living with Aids” ha lavorato in un ospedale in Zambia, in “Living with illegals” è diventato un immigrato clandestino che dal Marocco passando per Spagna e Francia raggiunge la Gran Bretagna, viaggio verso la terra promessa che si trasforma in un incubo. In “Living with corruption”, documentario uscito a gennaio 2008, mette invece in mostra il più grande ostacolo allo sviluppo economico del continente, la corruzione, andando a vedere dove vanno a finire gli aiuti economici provenienti dall’Occidente.
Non si è comunque dimenticato della Sierra Leone. Ha girato “Return to Freetown” raccogliendo la testimonianza di alcuni ex bambini soldato, e “Gioielli di sangue”, seguendo passo passo i diamanti dalla loro estrazione sino all’arrivo nelle gioiellerie di New York. Ha collaborato con Edward Zwick per la realizzazione del colossal “Blood diamone”, film che ha avuto il merito di rendere noto al grande pubblico il dramma della guerra senza però registrare i passi avanti compiuti dal Paese verso la pace e la democrazia. La giornalista francese Anne-Cècile Robert spiega come “la visione del mondo fornita dall’Occidente continua ad abbeverare il pianeta e il continente africano stesso. I media locali sono incapaci di bilanciare questa egemonia e le scarse risorse economiche degli organi di stampa e dei lettori non favoriscono lo sviluppo di giornali locali che rendano conto liberamente delle questioni continentali”. Un circolo vizioso da cui sembra difficile uscire, basta pensare che fino a pochi anni fa la televisione di Stato della Sierra Leone aveva una sola telecamera che seguiva il presidente in tutti i suoi spostamenti.

L’immaginario collettivo degli africani si sta costruendo sull’immagine presentata dall’Occidente, punto di vista unico di cosa avviene in Africa. Quello che succede in Sudan, in Etiopia, in Madagascar o in un qualsiasi altro Paese arriva nel resto del continente attraverso i media europei o americani. Come se l’immagine dell’Italia nel mondo arrivasse dalla Cina, come se noi sapessimo quello che succede in Francia, Spagna e Germania a seconda di cosa dice la televisione via satellite indiana.
Samura sta di fatto provando a rovesciare questa prospettiva, ed anche se a Freetown un suo documentario si vede di fatto solo se la CNN decide di trasmetterlo, un africano che racconta l’Africa è una piccola rivoluzione per il mondo dell’informazione.

Marco Grossetti
da Nuovo Progetto gennaio 2008


DVD
È possibile acquistare on-line i documentari di Sorious Samura sul sito insightnewstv.com.
E’ stato inoltre realizzato un documentario sui Sierra Leone’s Refugee All Star, anche questo disponibile in rete sul sito refugeeallstars.org

 

 

 

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