La carezza dei giusti

Pubblicato il 09-12-2023

di Matteo Spicuglia

Vehbi Efendi nel 1915 era ormai anziano. Turco musulmano, anni di lavoro nei servizi postali dell’Impero ottomano Viveva da tempo a Istanbul, ma non aveva mai dimenticato la città natale di Savur, nel sudest del Paese. In quell’estate, arrivarono proprio da lì le notizie delle prime uccisioni e deportazioni a danno degli armeni e delle minoranze. Vehbi non se lo fece dire due volte: partì per aiutare quante più persone possibili. E ce la fece. La sua villa di campagna, le grotte abbandonate alle porte della città, anche i tandoor, i grandi vasi cilindrici usati per cuocere: Vehbi riuscì a nascondere e salvare almeno 200 armeni.

Giacomo Bassi fu segretario comunale a Canegrate, vicino Milano. Nel 1943, nel pieno della persecuzione nazifascista contro gli ebrei, decise di mettersi in gioco in prima persona. Lo fece davanti al volto di Paola Contente arrivata nel suo ufficio con il figlio Nissim. Paola, il marito Israel e i tre figli erano sfollati e avevano cercato di espatriare in Svizzera per poi essere respinti. Chiesero aiuto a Bassi. «Tutti dicevano che era una brava persona e che aveva già aiutato moltissima gente. Andammo da lui. Ci aiutò. Ci diede dei documenti in bianco e così cambiammo identità…». Bassi, come avvenuto in altre situazioni, fornì i documenti e i timbri, trovò un alloggio sicuro per tutta la famiglia, provvide personalmente al cibo.

Djuro Ivkovic era un poliziotto serbo del comune bosniaco di Nevesinje. Quando iniziarono le violenze contro i civili musulmani, si schierò dalla loro parte a costo della vita. Nel luglio 1992, salvò tre ragazzi della famiglia Ćatić, poi i due figli di 6 mesi e 3 anni della signora Nura Mičijević, e ancora due signore anziane. Nulla di eccezionale per Djuro, semplicemente coerenza con i propri valori. Una volta confidò che «in guerra, la cosa più importante è salvare la propria integrità e proteggere la famiglia» È quello che fece fino all’ultimo.

Zura Karuhimbi nacque in una famiglia hutu, l’etnia responsabile del genocidio del Ruanda del 1994 contro la popolazione tutsi. Zura era già anziana, ma ebbe il coraggio di dire no a quel delirio collettivo. «Ho nascosto così tante persone che non ricordo nemmeno più alcuni dei loro nomi», raccontava. «Ho nascosto bambini piccoli che ho trovato sui corpi delle madri morte e li ho portati qui». Con un trucco. Come donna e curatrice, Zura era considerata una strega. Utilizzò questa credenza distorta per salvare vite. Un giorno, quando venne accusata da miliziani hutu di proteggere i tutsi, con candore li intimò di fare attenzione a non essere attaccati dagli spiriti. «Se io morirò, disse, morirete anche voi». Nessuno fece del male a lei né ai suoi protetti.

Vehbi, Giacomo, Djuro, Zura: storie, Paesi ed epoche diverse, ma lo stesso mistero.
Il mistero del bene che anche nella guerra più atroce si fa spazio, alza la testa, alimenta la speranza. Senza clamori, senza trionfalismi, come un sigillo che non lascia al male l’ultima parola. Vehbi, Giacomo, Djuro, Zura fanno parte della schiera dei giusti.
Chissà quanti come loro anche oggi! Carezze di Dio a un mondo che piange…
 

Matteo Spicuglia
NP novembre 2023

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