Il fiume racconta

Pubblicato il 24-10-2016

di Matteo Spicuglia

Richiedenti asilo e invisibili.
La realtà di chi rimane fuori dal sistema di accoglienza.

di Matteo Spicuglia - Il mondo parallelo scorre sulle rive di un fiume. Sopra, poco lontano, la città e il suo via vai. Sotto, tra frasche e cespugli una umanità che ha trovato qui la sua casa. Mohamed è un giovane di 27 anni. Ne dimostra molti di più. Capelli e occhi nerissimi, la tragedia dell’Afghanistan stampata dentro. Lui, ingegnere civile di Jalalabad, sposato, con due bimbi piccoli. Esperto sminatore, già collaboratore dell’esercito americano. Una scelta pagata cara, con i talebani e le loro accuse di tradimento. Prima le minacce, poi un attentato. Mohamed non può più rimanere.

La fuga è l’unica soluzione per chi ha famiglia, per chi vuole provare a costruire un futuro migliore. Racconta di un viaggio lunghissimo: sei mesi a piedi, in autobus, in treno. Sei mesi di espedienti tra Iran, Turchia, Macedonia, Balcani, Austria e infine, l’Italia. “Sono arrivato qui un anno fa – spiega – pensavo di trovare finalmente un po’ di pace. Ho chiesto asilo politico, ma non avrei immaginato di finire così”. Nel “così” di Mohamed c’è tutta la sua umiliazione personale, ma anche il fallimento del sistema di accoglienza del nostro Paese: la realtà di migliaia di persone rimaste fuori dalla rete dei centri di richiedenti asilo. Sono quelli arrivati in Italia via terra. Avrebbero diritto a un posto sicuro, come chi sbarca o viene soccorso in mare.

Ma per loro l’iter è più difficile, non automatico. Questura, prefettura, molta burocrazia: la fatica continua a trovare sistemazioni adeguate. Nell’attesa, Mohamed e quelli come lui si arrangiano. A Torino vivono in tende di fortuna sulle rive dello Stura, tra topi, espedienti e tutti i rischi di una vita precaria. “Cosa dovrei fare? – dice Mohamed – Vorrei i documenti. Un posto. Per ora non ho altro. Cosa mi aspetto dal futuro? Non lo so. Questa è la mia situazione”. Lo ascolti e non puoi aggiungere nulla. Immagini la sua forza il giorno della partenza, la voglia di riscatto, di costruire. Oggi, puoi solo comprendere il suo senso di sconfitta, la sua amarezza quando ti dice: “Pensavo di poter aiutare la mia famiglia.

Sta accadendo il contrario. È mia moglie a mandarmi qualche spicciolo per sopravvivere”. Le giornate sul fiume sono vuote, per certi aspetti inutili. Qui, vivono in venti, tutti da Pakistan e Afghanistan. Dove non arriva la ragione, arriva la solidarietà tra poveri. Questi giovani mettono tutto in comune, cucinano insieme il cibo raccolto tra i rifiuti dei mercati. Cercano di fare il possibile per affrontare una vita che definire “sopra le righe” è poco: freddo d’inverno e caldo d’estate, l’acqua che nei periodi di piena fa paura. Soprattutto, un futuro senza risposte. Qui, sul fiume, si aspetta. Come tanti, come tutti. Ma con una differenza: lo si fa da invisibili. Ed è così in tutta Italia. Le prefetture fanno il possibile, il lavoro di monitoraggio è continuo e anche l’impegno a svuotare con regolarità questa sorta di limbo. Ma è come svuotare il mare con un secchiello. Trovi una sistemazione ad un gruppo? Sai già che entro breve arriveranno altre persone.

Secondo una stima di Medici senza frontiere, sono almeno 10mila gli stranieri rifugiati o richiedenti asilo che vivono nei cosiddetti insediamenti informali. E in almeno quattro siti (Crotone, Catania, Udine e Bari) è stata rilevata anche la presenza di minori non accompagnati: un dramma ulteriore. Con risvolti sanitari imprevedibili. Sempre secondo Medici senza frontiere oltre il 70% di queste persone non ha accesso regolare a un medico. C’è il lavoro dei volontari, l’impegno di chi prova a mettersi in gioco, ma non basta. Mohamed non è un numero. È un volto, una storia, una persona appunto. Una sofferenza sottile che chiede solo risposte.

Foto Max Ferrero /SYNC





Rubrica di NUOVO PROGETTO


 

 

 

 

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