Lorenzo

Pubblicato il 28-10-2012

di Andrea Gotico

Un signore di una certa età, appoggiandosi con il bastone, qualche tempo fa venne insieme ad un gruppo di persone a fare una visita all’Arsenale.
Durante la visita, che condussi io, non disse una parola, ma si vedeva che osservava e ascoltava tutto con profondo interesse.
Lo riconobbi quando, dopo qualche giorno, tornò al centralino e chiese di parlarmi. Volle sapere tutto di me, perché ero qui, cosa facevo, e perché, e come mai, cos’è quello, ma non sei stufo… Insomma, un po’ le solite cose che spesso ti chiede chi per la prima volta si affaccia nella nostra vita.

Intanto giravamo per l’Arsenale e lui con il suo bastone mi mostrava le cose che gli piacevano o su cui chiedeva spiegazioni. Prima di andar via mi chiese se poteva tornare a trovarmi ogni tanto, gli dissi di sì e così una volta alla settimana, preceduto da una telefonata di preavviso, compariva al centralino con il suo sorriso un po’ tirato.
Una volta mi raccontò la sua vita: grande industriale a capo di una holding internazionale, moglie e tre figli, ricchissimo, una vita per il lavoro, a 60 anni dovette smettere di lavorare a causa di una rara patologia al piede destro, non grave ma dolorosa per cui non poteva più stare né seduto né in piedi troppo a lungo, ma solo sdraiato in una certa posizione.
“Quando ho cominciato a girare per medici e ospedali – mi disse – vedendo la sofferenza mia e degli altri, ho capito che la mia vita fino ad allora non l’avevo vissuta, ma solo lavorata. E allora, appena riesco, adesso esco e vado in giro a guardare e a parlare con la gente. Oppure sto con i miei nipotini che prima non vedevo mai. Ma la cosa più bella è quando vengo qui” mi disse guardandomi commosso. Lui voleva darci una mano, ma non sapeva fare nulla di manuale o sedentario, aveva sempre e solo fatto il boss, facevano tutto gli altri, lui decideva soltanto.

Un giorno mi confidò la sua tristezza, perché suo figlio più grande gli aveva alzato le mani. “Ma io allora cos’ho fatto nella mia vita? Ho sbagliato tutto”, piangeva angosciato. Gli stavo vicino, la consolavo, gli facevo compagnia e soprattutto discutevamo. Su tutto. Volle che venissi al matrimonio di sua figlia e facemmo, con mio sommo imbarazzo, almeno dieci foto assieme. Dopo qualche tempo un tumore lo colpì e andai a trovarlo all’ospedale. Non parlava più, ma mi sorrise con gli occhi.
Il giorno che morì, quando arrivai era già nella cella mortuaria. C’era una sedia, mi sedetti e continuammo a discutere come al solito, questa volta in silenzio.

Gianni Giletti

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