25 aprile 1945 – 25 aprile 2005

Pubblicato il 31-08-2009

di Rodolfo Venditti


La data di oggi – giustamente – ha dato occasione ai mass media, storici, professori, studenti di tutta Italia di riflettere su un non troppo lontano passato cercando di cogliere suggerimenti per il futuro…

di Rodolfo Venditti

Abbiamo scelto di proporre una testimonianza particolarmente significativa, tratta dall’introduzione del prof. Rodolfo Venditti al libro “Gino Pistoni. Ritratto di un caduto per la libertà”. (Piero Gribaudi Ed.)

Questo libro venne scritto da Giovanni Getto nel 1944, subito dopo aver appreso la notizia della morte di Gino Pistoni. Il libro viene ora ripubblicato sostanzialmente immutato perché la prima edizione è da molti anni esaurita e perché l'autore ritiene che la figura di Gino Pistoni possa essere tuttora proposta, a cinquant'anni dalla morte, come figura significativa, ricca di stimoli forti e fecondi.

Gino Pistoni era nato ad Ivrea (TO) il 25 febbraio 1924. Ragazzo come gli altri, si era diplomato in ragioneria presso i Fratelli delle Scuole Cristiane di Torino e poi si era messo a collaborare col padre, che gestiva ad Ivrea un negozio di casalinghi. La grande svolta della sua vita fu l'incontro con i gruppi giovanili di Azione cattolica e la conseguente scoperta della straordinaria freschezza, forza e «novità» del messaggio evangelico.

(…) Non è facile, oggi, dare un'idea esauriente di quale fosse la situazione in cui si viveva, nel 1943, in Italia. La dittatura fascista aveva duramente segnato la vita degli italiani. Il ricordo di fondo di quel periodo della mia giovinezza è il senso soffocante di una prigione ideologica, di una mutilazione della persona, di un impedimento a crescere liberamente e realizzarsi.

A tutto ciò s'era poi aggiunta, nel giugno 1940, la seconda guerra mondiale, con il suo tragico corteggio di privazioni, di fame autentica, di razionamento dei generi di prima necessità, di coprifuoco, di oscuramento, di bombardamenti sulle città. Si viveva come talpe: chiusi in casa dopo una certa ora, senza possibilità di riunioni serali, senza divertimenti, col rischio ogni notte di interrompere il sonno a seguito di un allarme aereo, di scendere in rifugio, di trovarsi sotto un bombardamento.

Ma il peggio doveva ancora venire. L'8 settembre 1943 (giorno dell'armistizio fra l'Italia e gli angloamericani, stipulato poche settimane dopo la caduta del fascismo) fu l'inizio di una esperienza ancora più tragica: l'occupazione nazista dell'Italia centro-settentrionale e la ricostituzione di un governo fascista (la cosiddetta Repubblica Sociale Italiana, il cui governo pose la sua sede a Salò); la collaborazione tra la milizia fascista e le truppe naziste (la cui espressione più disumana erano le «SS»); l'organizzarsi della resistenza partigiana e la «guerra civile» tra fascisti e partigiani, disseminata di spietatezze; le infinite vessazioni e stragi a cui la popolazione civile si trovò sottoposta.

Il 1944 fu un anno buio e orribile. Le città erano bombardate sistematicamente dall'aviazione angloamericana. I paesi delle campagne, e specialmente quelli della montagna, erano campi di battaglia tra nazifascisti e partigiani. Ad ogni azione partigiana i nazifascisti rispondevano con pesanti rappresaglie, fucilando civili presi in ostaggio e distruggendo interi paesi. Il bisogno che i nazisti avevano in Germania di manodopera li portava a razziare uomini in tutti i Paesi d'Europa occupati dall'esercito tedesco. Le «retate» erano all’ordine del giorno anche in Italia: giovani e uomini validi venivano catturati a casaccio, per strada o nelle case, venivano ammucchiati su tradotte e venivano trasportati in Germania.

I giovani di leva venivano chiamati alle armi per essere arruolati nell'esercito fascista. Molti di essi, per non collaborare coi nazifascisti, si sottraevano alla leva, non presentandosi alla chiamata e fuggendo in montagna. Lassù raggiungevano le formazioni partigiane che si erano andate organizzando in quegli anni nelle zone meno accessibili del territorio nazionale, grazie all'impegno di uomini delle più svariate provenienze ideologiche.

Quando, nel 1944, Gino fu raggiunto dalla chiamata alle armi, si presentò al Distretto di Ivrea e iniziò colà il servizio militare. Ma durante le prime settimane di servizio stabilì contatti coi partigiani, tra i quali c'erano molti suoi amici, e organizzò con essi e con alcuni commilitoni una clamorosa fuga notturna dal Distretto. Il piano era ben congegnato. Al fine di evitare l’accusa di diserzione (con conseguente pericolo di rappresaglie nei confronti dei familiari dei «disertori»), il piano prevedeva una incursione notturna di partigiani al Distretto di Ivrea: i partigiani si sarebbero avvicinati al Distretto spingendo a mano dei camions per non far rumore;
Gino e i suoi compagni avrebbero aperto le porte del Distretto all'ora convenuta; i partigiani avrebbero fatto bottino di armi, munizioni, vettovaglie e avrebbero «fatto prigionieri», portandoli via con sé, alcuni soldati in servizio al Distretto. Il piano funzionò perfettamente. Gino seguì i partigiani sulle montagne di Trovinasse nella zona del Mombarone. I giornali fascisti parlarono di una azione di «banditi» che avevano fatto prigionieri alcuni soldati.

Gino partecipò all’azione con la quale i partigiani intendevano liberare la vicina valle di Gressoney, occupandola e facendo saltare il ponte di Tour d'Héreraz al fine di interrompere, proprio all'imbocco della valle, la strada che da Pont Saint Martin conduce a Gressoney. L'operazione di distruzione del ponte si svolse secondo le previsioni. Ma due camion di militi fascisti salirono da Pont Saint Martin ed ebbero un conflitto a fuoco con i partigiani appostati a monte. La potenza di fuoco era assai forte e i partigiani dovettero ritirarsi in ordine sparso lungo le pendici della montagna. Nel corso di quella ritirata Gino venne ferito a una gamba da una scheggia e cadde, rotolando verso il basso. Scomparve dalla vista dei compagni e restò solo, sul terreno. Là, nel bosco, cercò di tamponare la ferita alla coscia, da cui il sangue usciva abbondante. Tentò con una cinghia, poi con fazzoletti. Fu inutile. Rendendosi conto che la morte si avvicinava, trasse dallo zaino il sacchetto del pane e, intingendo un dito nel proprio sangue, tracciò sulla tela bianca alcuni segni. Era il 25 luglio 1944.

Il corpo di Gino venne rinvenuto il 29 luglio dai genitori, i quali, avuta notizia ad Ivrea del ferimento del figlio, avevano iniziato le ricerche, tramite persone del luogo. Il corpo era stato ritrovato da una persona di Fontainemore, la quale aveva portato ai genitori una immagine di Cristo inginocchiato nel Getsemani, intrisa di sangue, raccolta vicino al cadavere. Lo trovarono giacente su un fianco, piegato su se stesso, col viso rivolto a terra. Era in avanzato stato di decomposizione, dopo quattro giorni di caldo estivo: ma era riconoscibile dai capelli, dalla statura, dal vestito, dalle cose che aveva accanto.
Accanto, lo zaino, l'Ufficio della Madonna, il sacchetto bianco macchiato di sangue. Tutto venne raccolto religiosamente dai familiari, i quali si accorsero ben presto che il sangue che macchiava il sacchetto rivelava le seguenti parole: «per Azione Cattolica e per Italia - Viva Cristo Re».

Ma qualche tempo dopo si scoperse che alcune macchie di sangue che imbrattavano l'altra faccia del sacchetto e che erano dapprima apparse casuali, rivelavano qualche altra parola se la faccia veniva capovolta. Si decifrò: «Offro mia vita».

E allora si capì che il morente aveva scritto col sangue un completo testamento spirituale, tracciando a fatica alcune parole su una faccia del sacchetto e poi, voltato il sacchetto di sotto in su, completando il suo messaggio sull’altra faccia, che era poi quella rimasta in evidenza accanto al suo corpo. Scucendo i fianchi del sacchetto, la tela si allungava in un'unica striscia, sulla quale risultava scritto così: «Offro mia vita per Azione Cattolica e per Italia - Viva Cristo Re».

Rodolfo Venditti

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