Debito e ipocrisia

Pubblicato il 13-06-2024

di Matteo Spicuglia

Tervuren oggi è un’area verde di Bruxelles che accoglie il più grande museo etnografico al mondo dedicato all’Africa. Ma è un viaggio nel tempo a svelarne il lato inquietante: 1897, Esposizione Universale. Il re del Belgio Leopoldo II aveva fatto le cose in grande per magnificare lo Stato Libero del Congo, non una colonia, ma un regno privato, una proprietà personale da controllare e soprattutto sfruttare. Non si era fatto scrupoli a deportare in patria 267 donne, uomini e bambini per riprodurre la vita di un villaggio africano. Abiti e attività tradizionali dietro al recinto, migliaia di visitatori incuriositi da quella novità esotica con tanto di cibo e banane da lanciare, un cartello che lo vietava: «I neri sono cibati dal comitato organizzatore». Insomma, uno zoo umano, raccapricciante al solo pensiero. Eppure, la semplice punta di un iceberg. Perché l’abisso vero si consumava nel cuore del continente africano.
In Congo non esistevano esseri umani, ma schiavi. Leopoldo non vi aveva mai messo piede, non era necessario per i suoi obiettivi. Aveva delegato tutto alla Force Publique, una sorta di polizia coloniale, e a grandi società concessionarie che sfruttavano le materie prime garantendo rendite altissime al sovrano.
La gomma di caucciù era il vero tesoro grazie a una domanda altissima dai mercati del primo mondo. Basti pensare che in appena cinque anni, dal 1895 al 1900, le esportazioni passarono da 580 a 3.740 tonnellate.

Per ottenere questi numeri, serviva manodopera. Ogni villaggio doveva consegnare agli emissari del re una quota fissa, senza alcun compenso. Chi si rifiutava o consegnava quantità minori di quelle richieste, era punito duramente, veniva torturato con i propri figli, stuprato, mutilato, ucciso. Le denunce dei missionari degli inizi del ‘900 si commentano da sole. Scrive Edvard Vilhelm Sjöblom: «Gli si fa la guerra. Gli distruggono le risaie e gli rubano il cibo.
Gli abbattono i plataneti, anche se non hanno ancora fruttato, spesso gli incendiano le capanne e gli si portano via gli oggetti di valore. A volte gli indigeni sono costretti a versare un pesante risarcimento. In genere i capi li pagano con filo di ottone e schiavi e, se non ci sono schiavi a sufficienza, sono costretti a vendere le loro mogli».

La missionaria inglese Alice Seeley Harris usò la fotografia come arma di denuncia. In uno dei suoi scatti più famosi si vede un uomo Nsala, seduto in una veranda, inebetito di fronte a una mano e un piede mozzati. Quelli della figlioletta di cinque anni Boali, punita al posto del padre.
Fu così per migliaia di figli, mogli, genitori. Sempre lo stesso meccanismo: chi non rendeva a sufficienza, la pagava in tutti i sensi, secondo una logica di spersonalizzazione e annientamento totali. La Force Publique per esempio era autorizzata dalle società concessionarie a uccidere, ma a un patto preciso: per ogni colpo sparato contro un indigeno, doveva essere restituita la mano destra, come prova di non aver sprecato munizioni.
< Una volta, un testimone descrisse un’incursione per punire un villaggio che aveva protestato, dicendo che l’ufficiale in comando «ci ordinò di tagliare le teste degli uomini e di appenderle alle palizzate del villaggio... e di appendere le donne e i bambini alla palizzata in forma di croce».

Tutto questo avveniva poco più di cento anni fa. Praticamente ieri. Qualcuno ha ancora dubbi sul debito che noi Europei abbiamo con l’Africa? Ipocrita chi non risponde…
 

Matteo Spicuglia
NP maggio 2024

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