Tornare per ricostruire

Pubblicato il 20-05-2024

di Matteo Spicuglia

Irvin aveva appena sei anni quando fu costretto a scappare. La vita di un bambino e della sua famiglia: papà, mamma, una sorella e un fratello. La bellezza delle montagne della Bosnia a fare da sfondo. Gli anni ’90 però furono anni terribili per quel pezzo di mondo, diventato lo scenario di una delle guerre più sanguinose mai combattute in Europa. Il paese di Irvin, Srebenica, è diventato un simbolo di quella tragedia: il luogo del genocidio di 8mila uomini e ragazzi, uccisi nel giro di pochi giorni nel luglio del 1995. Erano tutti bosgnacchi musulmani, vittime dell’esercito serbo bosniaco guidato dal generale Ratko Mladic. Srebenica fu solo una delle stragi commesse in poco più di tre anni: in tutto 100mila morti per una guerra caratterizzata soprattutto dalla pulizia etnica.
Irvin è un sopravvissuto. Riuscì a fuggire con la mamma e i fratelli in Italia, in un paesino della Val Camonica. Il padre e lo zio invece finirono nel buco nero della violenza. Tanto dolore, ma anche una vita normale: Irvin ha studiato, è diventato cittadino italiano, ha imparato le lingue. Da adulto ha lavorato in Belgio, promuovendo progetti di coooperazione, ma a un certo punto, dieci anni fa, ha sentito nel cuore la scintilla di una scelta radicale: tornare a casa, lì a Srebrenica, dove memoria e fantasmi erano ancora legati a doppio filo. Una decisione apparentemente insensata: tornare da solo, in un città impoverita, con poche prospettive, segnata dal sangue del passato che ha congelato relazioni, visioni di futuro, a volte anche la speranza. Irvin ha dato vita a una esperienza di turismo responsabile, costruendo dei piccoli bungalow immersi nella natura, per far sì che il dolore non avesse l’ultima parola.


Cosa ti ha spinto?
È stato un cammino fatto di tanti incontri, culminato in un progetto che abbiamo realizzato nel 2014. Organizzammo una sorta di viaggio della memoria a Srebrenica partecipando con altri giovani alla marcia della pace che ogni 7 luglio parte da un villaggio vicino a Tusla, lungo il sentiero nella foresta percorso dai sopravvissuti al genocidio. Tornarci dopo così tanto tempo, camminare in quella marcia e vedere la città condizioni miserevoli mi ha fatto riflettere su quale dovesse essere il ruolo della mia generazione.

Quale era?
Si respirava un’atmosfera di abbandono e di stallo temporale, come se il tempo non riuscisse a andare né avanti né indietro; sembrava che tutto semplicemente galleggiasse. Pian piano è maturata in me la decisione di tornare a vivere a Srebrenica, provando a costruire qualche cosa. Per me era importante chiudere una pagina della storia molto dolorosa, che mi ha privato di tanti famigliari. Non so se sia possibile fare pace con tutto quello che è successo, ma per me era importante ricominciare.

Esiste un metodo?
L’unica maniera è lavorare, cercare il confronto e il dialogo. Ho sempre pensato che uno degli obiettivi di un genocidio non fosse solo quello di eliminare un gruppo da un certo territorio, ma anche impedire che si coltivassero relazioni tra culture diverse. Prima della guerra degli anni ’90 le cose funzionavano in maniera opposta, c’era proprio la volontà di far convivere tutti nel rispetto reciproco. Con la pulizia etnica tutto crollò. L’obiettivo era spazzare via proprio quelle relazioni positive. Nel caso specifico di Srebrenica, tornare e creare rapporti di amicizia e relazione tra culture diverse è un modo per dimostrare che il nazionalismo non deve vincere.

Esiste questo rischio?
Purtroppo sì. Anche se il tribunale dell’Aja ha emesso condanne definitive in merito al genocidio, il clima che si respira è diverso: nella realtà il nazionalismo ha ancora un peso determinante perché impedisce alle comunità di tornare a vivere insieme, a scambiare e a creare qualche cosa di nuovo.

Cosa significa per te costruire la pace?
Significa non arrendersi e provarci in qualsiasi momento. Costruisci la pace con il rapporto con le persone nella quotidianità della vita. Parlare di nazionalità diverse per me è un concetto strano. Faccio fatica a pensare all’idraulico come a un serbo o a un musulmano, è semplicemente una persona che fa il suo lavoro. Da qui si deve partire.

Cosa hai imparato in questi anni?
Ho capito che non servono le rivoluzioni, perché solo le piccole azioni quotidiane possono salvare le relazioni e costruire la pace. Abbiamo bisogno di fare pace tra noi esseri umani e anche con la natura che ci circonda. Purtroppo tutte e due le questioni sono drammaticamente aperte e non le stiamo affrontando al meglio. Il nostro sistema democratico è un sistema di delega. Noi deleghiamo ai politici la capacità di prendere delle decisioni. Tante volte questa delega si riduce a un momento di pura critica, invece dovrebbe essere un’occasione di impegno e cittadinanza attiva. È un modo per realizzare il cambiamento, ma abbiamo ancora una scarsa coscienza in merito. Sentiamo ancora poco questa senso di responsabilità, condivisione e solidarietà. La pace è possibile se l’umanità si dedicasse a questo obiettivo attraverso piccole azioni che si muovono tutte nella stessa direzione. Siamo immersi in questo sistema di corsa frenetica verso il successo che ci scordiamo tante volte che la pace si costruisce con calma, rispettandosi l’un l’altro, condividendo quello che si ha.


Matteo Spicuglia
NP Focus
NP aprile 2024

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