Addio, uomo della staffetta

Pubblicato il 31-08-2009

di Alessandro Moroni


Scompare il timido timoniere di una squadra che realizzò un’impresa appartenente al Mito più che alla Storia; e tutti noi “over 40” ci sentiamo un po’ orfani.

di Alessandro Moroni

“Riverarretee! Rivera, ancora, quattro a tre!!”

Chi è appassionato di calcio ed è nato entro e non oltre gli albori degli anni ’60 leggendo queste parole sarà letteralmente saltato sulla sedia. Infatti chi, come me, in qualche modo il 17 giugno 1970 “c’era” non può non avere ripensato a quella che resterà sempre scolpita nella sua memoria come la più grande partita di calcio di tutti i tempi: Città del Messico, Stadio Azteca, semifinale del Campionato del Mondo (all’epoca noto come Coppa Rimet): Italia-Germania 4-3. Una sfida interminabile, decisa ai supplementari, nella quale successe di tutto: l’Italia che aveva praticamente vinto riuscì nell’impresa di farsi raggiungere al terzo minuto di recupero da un difensore che mai aveva tirato in porta in vita sua (oltretutto un “mercenario” militante dalle nostre parti: “Carletto” Schnellinger, in forza al Milan). Nei supplementari andò sotto, e sembrò finita; invece riuscì a portarsi di nuovo avanti, ma incredibilmente trovò ancora il modo di farsi raggiungere, e il minuto dopo Rivera siglò il goal decisivo, per il tripudio finale. Un’emozione unica, indescrivibile, alla quale ciascuno di noialtri “matusa over-fourty” ha indelebilmente associato un ricordo: e i miei sono assolutamente vividi, anche se nel giugno 1970 non avevo ancora compiuto 9 anni.


Rivera
I protagonisti di quell’impresa hanno scritto pagine di un calcio che ormai sembra appartenere al “giurassico”: Riva, Rivera, Mazzola, Boninsegna, Facchetti, Albertosi; un telecronista, Nando Martellini, che al confronto con gli anchorman contemporanei sembrava uscito da un incrocio tra “Le Tigri di Mompracem” di Salgari e “Cuore” di De Amicis. E in generale un ambiente molto più “strapaesano” rispetto all’immenso circo mediatico che è il Calcio del 2000; con i protagonisti a volte guasconi, più spesso schivi, ma comunque raramente in grado di “bucare il video” (già molto meno invadente di suo). Pochi erano gli autentici “personaggi” tra i calciatori, e lo stesso valeva per allenatori e presidenti: al massimo, qualcuno veniva riscoperto “personaggio” a carriera conclusa.
Già, gli allenatori… chi guidava quella storica nazionale?
Se ne è andato la settimana scorsa, il buon Ferruccio Valcareggi. A 86 anni, in una uggiosa giornata autunnale: in punta di piedi, con tutta la discrezione del mondo, quasi non volesse disturbare, con lo stesso stile con cui aveva occupato il posto di Commissario Tecnico di quella che, trent’anni fa, poteva ben dirsi la nazionale azzurra più vincente del dopoguerra. L’unica, anzi, che avesse vinto qualcosa. Aveva rilevato una panchina che scottava, se mai ce ne furono: quella di Edmondo Fabbri, tecnico della nazionale clamorosamente eliminata dalla Corea del Nord ai mondiali del 1966 in Inghilterra (al ritorno a casa, gli azzurri furono letteralmente bersagliati da un nutrito lancio di pomodori). Fabbri era un allenatore romagnolo “presenzialista” (non il primo, e nemmeno l’ultimo: vi dice niente un certo Arrigo Sacchi?!?) e molto sicuro di sé, quantomeno fino alla Corea e ai pomodori che ne seguirono... Valcareggi era l’esatto opposto: un triestino atipico, molto schivo, sempre a disagio davanti a taccuini e microfoni, per non parlare delle telecamere.

Valcareggi
Pochi davano credito a questo tecnico federale taciturno e per nulla propenso a calarsi nelle “beghe” suscitate dalle rivalità dei grandi club; pure, qualche dose di carisma doveva inaspettatamente far parte del suo armamentario, se è vero che due soli anni dopo il disastro “coreano” seppe vincere il Campionato Europeo: primo trofeo conquistato dalla nazionale azzurra dai tempi “preistorici” di Meazza e Piola! Intendiamoci: fu tutto, tranne che una vittoria limpida e caratterizzata da superiorità cristallina: già la semifinale con l’Unione Sovietica (all’epoca molto forte) fu una maratona interminabile, zero a zero dopo i supplementari e passaggio del turno ottenuto non già mediante i rigori, bensì grazie… a un sorteggio effettuato dall’arbitro col lancio di una monetina alla presenza dei due capitani negli spogliatoi (calcio d’altri tempi… che tenerezza!).
 La Nazionale che vinse il Campionato Europeo nel '68 E la finale con la Jugoslavia fu un vero strazio dell’anima. Si giocava a Roma, in quanto l’Italia era il Paese organizzatore; la nazionale fu irretita fino al dispetto e a tratti umiliata dai serbi, croati e bosniaci che all’epoca tutti insieme componevano una squadra sicuramente superiore alla nostra per proprietà di palleggio e tecnica individuale. Andò sotto e trovò un pareggio molto casuale con una punizione a 10 minuti dalla fine. Nella circostanza non erano previsti supplementari (i rigori erano di là da venire), per cui non volendo procedere ad un secondo sorteggio, che sarebbe suonato quantomeno imbarazzante, si procedette alla ripetizione della gara… il giorno successivo! L’Italia, che aveva forze più fresche disponibili in panchina, stavolta prevalse.
Calcio pionieristico, avventuroso e decisamente “alla buona” in tutto, regolamenti compresi… Oggi difficilmente un tipo come Valcareggi troverebbe posto su una panchina di Serie A, suonerebbe troppo “improvvisato” e troppo poco dotato di personalità per sopravvivere nella jungla del calcio di oggi. Era un buono, Ferruccio; anche troppo. Nel 1974 in una certa situazione “Giorgione” Chinaglia, centravanti della Lazio campione d’Italia dai modi decisamente bruschi, lo mandò platealmente a quel paese in mondovisione per via di una sostituzione non gradita. Ferruccio non volle fare nessun commento, né in privato col calciatore, né a mezzo stampa, lasciando ad altri il “lavoro sporco” della gestione del brutto caso. È l’esempio più eclatante che ricordo, ma tutto il mandato di Valcareggi in Nazionale è stato caratterizzato dalla sua renitenza, insistita fino all’autolesionismo, a voler gestire le numerose “patate bollenti” che un simile incarico implicava.
L’ultima partita del “grande Torino”

Valentino Mazzola con il figlio Sandro poco prima dell'incidente aereo del 4 maggio 1949, nel quale l’aereo che riportava a casa la squadra del “grande Torino” si schiantò contro la rupe di Superga, causando la morte dell’intera squadra.
La squadra tornava da Lisbona, doveva si era recata a disputare un’amichevole perché il capitano del Benfica, amico di Valentino Mazzola (capitano del Torino), voleva disputare contro i Granata l'incontro del suo addio al calcio.

Era un’epoca caratterizzata da una presenza molto più invasiva della stampa nelle vicende della nazionale: quasi tutti i giocatori avevano uno “sponsor” presso qualche penna illustre, e un detrattore accanito presso una testata concorrente. Anche i club di appartenenza dei giocatori, ovviamente, facevano la loro parte ed ecco che il compito del Commissario Tecnico si riduceva spesso a una difficile opera di equilibrismo nella quale chi aveva tutto da perderci era soltanto la Nazionale. Se Fabbri, predecessore di Valcareggi, scelse di sposare una delle linee editoriali facendola propria (inimicandosi quindi in eterno tutte le altre), Ferruccio cercò la non meno difficile via del bilanciamento. Questo diede vita a paradossi che nella logica attuale appaiono incredibile, come per esempio il caso della famosa staffetta Mazzola-Rivera.

Erano i due giocatori che dividevano l’Italia: il prototipo di quel giocatore atipico che nel bene e nel male avrebbe segnato il calcio italiano. I due antesignani dei Beccalossi, Baggio e Del Piero: giocatori dal ruolo assurdamente ibrido, né centrocampisti né attaccanti, immensamente estrosi ma dinamicamente deficitari fino al dispetto, per i quali si è sentita l’esigenza di coniare una definizione ad hoc (“trequartisti”); croce e delizia di tutti gli allenatori perennemente indecisi se collocarli a centrocampo (guadagnando in creatività ciò che veniva perso in robustezza) o in attacco. Oggi in realtà i tecnici sopportano poco ambiguità del genere: il calcio contemporaneo è soprattutto un fatto muscolare per il quale la fantasia non può mai prescindere dalla corsa, per cui il trequartista “reprobo” finisce regolarmente a fare l’attaccante (dove non può essere dannoso oltre misura), e spesso e volentieri in panchina (vedasi la triste storia di Del Piero alla corte di Capello).
Ma a cavallo del 1970 il verbo tattico non si era ancora irrigidito dietro montagne di schemi, per cui era concesso un po’ più di spazio per la fantasia al potere: già allora però, la coesistenza di “ben due” atipici come Rivera e Mazzola creava più di un grattacapo. E come risolse l’inghippo il buon Valcareggi? Semplicissimo, come si farebbe all’oratorio, a turno: il primo tempo giochi tu, il secondo gioca lui! Avete letto bene: fu proprio così che andò ai mondiali del ’70. Oggi verrebbe infilata la camicia di forza a chiunque avesse un’idea del genere, ma all’epoca sembrò l’uovo di colombo. E il tutto, si badi, avvenne nella più adamantina trasparenza e in obbedienza alle regole dell’alternanza, poco importava che la situazione tattica del momento esigesse una decisione diversa dal programmato.

Nella mitica semifinale con la Germania si andò al riposo sull’1-0, per cui nel secondo tempo era prevedibile l’assalto tedesco? Poco importa, si era deciso che nel secondo tempo dovesse entrare Rivera, ed eccolo sgambettare tra due colossi come Seeler e Beckenbauer! Rivera era, se possibile, ancora più impalpabile di Mazzola quanto a sostanza, e ancora più estroso: quale possa essere stato il suo apporto a un centrocampo soverchiato dinamicamente e in continua inferiorità numerica potete immaginarlo! Per fortuna sua, di Valcareggi e di tutti noi la Germania riuscì solo a pareggiare in extremis nel secondo tempo, per cui la Musa Ispiratrice dell’olimpico Rivera tornò persino utile nei supplementari: fu infatti lui a segnare il goal decisivo anche se, per onestà di cronaca, va detto che aveva propiziato l’ultimo pareggio tedesco.

Beckenbauer

Edison Arantes do Nascimento detto “Pelé”
Capitò poi che Rivera fosse “fatto fuori” da una fronda di spogliatoio nei giorni che intercorsero tra la semifinale e la finale con il Brasile, per cui rimase in panchina (gli toccò anzi l’umiliazione di dover giocare i 6 minuti finali) proprio nella circostanza in cui sarebbe stato più utile averlo in campo! Capita oggi di leggere sentenze emesse a sproposito, che vorrebbero “quel” Brasile il più forte di ogni tempo. Niente di più falso: perché se la classe era immensa dal centrocampo in su (la squadra annoverava Pelé, Gerson e Rivelino), la difesa basata su elementi quali Piazza, Clodoaldo, Brito e Carlos Alberto oggi a stento troverebbe spazio in una squadra da bassa classifica della nostra Serie A; per non parlare del portiere Felix, nei confronti del quale anche lo sciagurato Valdir Perez dell’edizione 1982 rischia di diventare un portiere da monumento in piazza!

Insomma, non era imbattibile, quel Brasile. Può essere che lo sforzo mostruoso prodigato in semifinale nell’eliminare la Germania ai supplementari (a 2000 metri di altitudine!) ci avrebbe condannati comunque; ma certo ci mettemmo del nostro lasciando in panchina l’unico che avrebbe potuto con qualcuno dei suoi lanci illuminanti spedire Riva e Boninsegna diritti in una porta non proprio ermeticamente difesa. Invece perdemmo 4-1 e tornammo a casa con un secondo posto, che rappresentava comunque il miglior piazzamento di sempre, fatti salvi i due mondiali vinti nell’anteguerra. E con un dubbio: Valcareggi fu più abile o più fortunato?

La risposta, che si può forse dedurre dall’analisi svolta, suona ormai piuttosto oziosa, posto che un’abilità decisiva il buon Ferruccio l’ebbe di sicuro: la capacità di sdrammatizzare, di smorzare i toni, di ricondurre ogni situazione in termini civili e sportivi. Fu un vero e proprio “parafulmine”, e riuscì sempre a trattare i suoi giocatori da uomini. Gli mancò forse un pizzico di personalità per condurre la nave decisamente ingombrante che gli era stata affidata in acque mai battute; personalità che non mancò affatto al suo successore e (quasi) conterraneo, Enzo Bearzot.
Valcareggi non fu, con ogni probabilità, un allenatore da annoverare tra i grandi. Ma riuscì dove molti più dotati di lui avevano fallito, con la giusta miscela di modestia, tatto, equilibrio. E ha lasciato un bel vuoto in chi ha vissuto in TV la più grande emozione sportiva del ventesimo secolo.

Alessandro Moroni

 

 

 

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok