27 gennaio 2007: GIORNATA DELLA MEMORIA

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig

Si stima che solo in Italia i deportati nei campi di concentramento nazisti per ragioni razziali siano stati 7.500, quelli per ragioni politiche 35.000. L’olocausto non è un’invenzione e tenere viva la memoria è un dovere.

di Marcella Filippa
Bisogno, necessità, dovere, desiderio di ricordare. Ricordare per se stessi, per gli altri, per il popolo o la nazione alla quale si appartiene. Ricordare per costruire, rafforzare, mantenere la propria identità, per poter continuare a vivere, per rimarginare le proprie ferite e poter guardare avanti.
“Zakhor”, ovvero “ricorda”. L'imperativo ebraico compare nell'Antico Testamento non meno di centossantanove volte. Al popolo di Israele viene ingiunto di ricordare, in maniera assoluta e inappellabile, e viene anche imposto di non dimenticare, e tale ingiunzione è sentita da un popolo intero.

Parigi, la retata al Velodromo d'Inverno

La necessità di ricordare, non come comandamento religioso, ma nella sua forma più ampia e universale del termine, è stata rese legge dallo Stato italiano, come è già avvenuto in precedenza per altri Paesi europei. Con la legge numero 211 del 20 luglio 2000 si è individuato il 27 gennaio, come Giornata della Memoria, al fine di ricordare, come stabilisce l'articolo 1, "la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati".

La data rievoca la giornata in cui vennero abbattuti i cancelli del lager di Auschwitz, quando, verso il mezzogiorno, quattro soldati dell'Armata Rossa a cavallo "guardinghi coi mitragliatori abbracciati", giunsero nei pressi del reticolato, per liberare chi era sopravvissuto dall'inferno dell'olocausto. Una descrizione straordinaria di quei momenti emerge nelle pagine iniziali del libro di Primo Levi, “La tregua”: "Quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.

Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio".

Giorni della Memoria sono stati precedentemente istituiti in altri Paesi: Belgio, Olanda, Danimarca, Germania, Gran Bretagna e Svezia, che hanno optato anch'essi per la stessa data, il 27 gennaio. In Francia, il presidente Mitterand, con il decreto presidenziale del 3 febbraio 1993 ha fissato la data del 16 giugno come giornata del ricordo della grande “rafle” (“retata”; vedi box e foto sopra – n.d.r.) del Velodromo d'Inverno”.
Altre date potevano essere scelte, anche nel nostro Paese, per ricordare quella immane tragedia, più o meno note, che hanno attraversato la storia italiana. Tra le varie proposte a suo tempo fatte, segnalo per valore simbolico quella che indicava come giorno della memoria il 16 ottobre, ricordando la razzia nel ghetto di Roma al Portico d'Ottavia, il 16 ottobre 1943 (vedi box). Forse una data che riportava a un evento più vicino a noi, avvenuto nel nostro Paese, mentre per certi versi il 27 gennaio risulta distante, fuori da noi, quindi forse meno reale, e per la quale ci sentiamo un po' estranei, privi di colpa, una storia che sembrerebbe non appartenerci come italiani.

Ma il 27 gennaio è stato scelto, e intorno a tale data occorre costruire momenti di riflessione, ricordo, dibattito, presenza, per non dimenticare ciò che è accaduto, affinché, come recita la legge "simili eventi non possano più accedere". Nello stesso tempo occorre vigilare affinché tale giornata non diventi vuota celebrazione retorica e formale, un momento istituzionale senza rapporti con il mondo reale, fatto di uomini, donne e bambini, di differenti generazioni, ai quali la giornata è rivolta, con l'aiuto di coloro che ebbero a patire quelle persecuzioni, in un costante intreccio e trasmissione fra le generazioni, segno di vitalità di un Paese che vuole guardare al passato, qualunque esso sia, anche quello più doloroso, senza rimozioni, distorsioni e visioni rigidamente manichee.

La memoria però non può sostituire la storia, né il ricordo imposto o suggerito solo per decreto legge, ma entrambe debbono essere riconosciute nella loro importanza e nella loro autonomia. Occorre un'adeguata consapevolezza pubblica del passato, alquanto fragile nel nostro Paese, le sofferenze del passato devono essere riconosciute e risarcite, facendo tutto ciò che è possibile affinché quella storia non si ripeta. Perché, come affermava Primo Levi in “Se questo è un uomo”, tra i libri più significativi del Novecento, "se comprendere è impossibile, conoscere è necessario".

È altresì importante tener presente che nel ricordo non vanno trascurate altre categorie di persone, di cui la legge del 2000 non parla esplicitamente, che subirono la persecuzione e la deportazione: omosessuali, zingari, testimoni di Geova. A questi ultimi che affrontarono la deportazione, pur di non rinnegare la propria fede, la storiografia, dopo un lungo silenzio, sta dedicando maggior attenzione, soprattutto a Torino, con la preparazione di convegni, mostre, interventi nelle scuole.

Personalmente ritengo che l'imperativo morale del ricordare sia oggi più che mai pressante. Viviamo in una società nella quale il declino della memoria collettiva sembra essere inarrestabile, talvolta essa è deliberatamente distorta o violata, al fine di inventare una passato teso a giustificare il qui e ora. Se impossibile è stabilire ciò che si deve ricordare e ciò che si deve dimenticare, per poter continuare a vivere, per essere una generazione vitale, come ebbe a scrivere la giovane ebrea di Amsterdam, Etty Hillesum ("Diario 1941-1943", Adelphi 1996; "Lettere 1942-1943", Adelphi 2001), morta ad Auschwitz con tutta la sua famiglia, all'età di ventinove anni, dobbiamo cercare di ospitare nelle nostre teste e nei nostri cuori il passato, per decantarlo e far sì che esso diventi un fattore di crescita e comprensione. Per poter progettare un futuro di pace. Un futuro senza odio, la più grave malattia dell'anima.

 
Marcella Filippa
Vedi anche:
LA STRADA DI LEVI

La retata del Velodromo d’Inverno
Nel luglio 1942 le autorità tedesche decisero di lanciare una gigantesca retata in molti Paesi, sottoil nome uin codice di “Vento di Primavera”. La polizia francese fornì un elenco dettagliato degli ebrei della capitale. Alle 4 del mattino del 16 luglio 1942, 12.884 ebrei (tra i quali 4.051 bambini e 5.802 donne) furono arrestati. Nel corso del 1942, 42.000 persone furono deportate dal territorio francese ad Auschwitz. Solo 811 tornarono nel 1945.

Il Portico d'Ottavia (vedi foto)
E’ il centro storico della zona di Roma denominata “Ghetto”.
Dal veneziano “ghèto”, che indicava in origine una fonderia esistente a Venezia nell'isoletta poi assegnata agli Ebrei quale dimora nel 1516, la parola divenne dal secolo XVI in tutta Europa il nome del quartiere cittadino di dimora coattiva degli ebrei.
A Roma gli ebrei si stabilirono nella zona attorno al Portico d'Ottavia e poi furono obbligati a restarci. Papa Paolo IV nel 1555 fece alzare un muro per delimitare la zona del Ghetto con solo 3 porte, che venivano chiuse al calar del sole: tutti gli ebrei dovevano obbligatoriamente rientrarvi.
La Repubblica Romana il 17 aprile 1848 fece abbattere il muro. Agli inizi del '900 il Ghetto venne definitivamente smantellato e gli ebrei non furono più formalmente separati dagli altri cittadini.
Nel 1939, dopo l'alleanza con la Germania nazista, il fascismo approva le leggi razziali e il 16 ottobre 1943 i soldati tedeschi, circondato il vecchio Ghetto, rimasto la zona di massima concentrazione ebraica, rastrellano 2.091 ebrei romani, deportandoli nei campi di concentramento in Germania.

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