A cena con la tv

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


1,5 milioni gli spettatori che le grandi reti tv italiane hanno perso – nel 2006 - durante gli orari di punta in prima serata. Eppure, l’abitudine di mangiare davanti alla televisione accesa è dura a morire.

Michelangelo Dotta

Una consuetudine ormai consacrata sull’altare dell’informazione ci ha lentamente abituati a consumare i pasti non già cianciando con i commensali come usava un tempo, ma asserviti all’assoluto e silenzioso linguaggio della fruizione passiva; fissi con lo sguardo non più sul piatto, a pregustare paradisi di intenso godimento papillare, ma con gli occhi direttamente incollati sullo schermo ove passa il Tg, scorrono le scene di battaglia, urlano le vittime e penzolano i condannati.

Questa barbara abitudine miete un numero di vittime
maggiore proprio in Italia e nei Paesi di tradizione mediterranea, ove più radicata è l’usanza di riunirsi intorno ad un tavolo e consumare il pasto seguendo un antico rituale di condivisione del cibo, di cui nei Paesi cosiddetti ricchi, America in testa, non esiste più traccia alcuna. La famiglia al completo, figli piccoli compresi, nella maggior parte dei casi, cade nella trappola televisiva che di fatto annulla i rapporti, annacqua i conflitti generazionali, ammutolisce l’intera assemblea riunita in ossequiosa adorazione del telegiornale, vero e unico totem casalingo in grado di polarizzare corpo e mente degli individui.

Ma la realtà mostrata dalle immagini è sempre parziale, non è propriamente una bugia ma è più assimilabile ad una mezza verità: per questo doppiamente pericolosa se coniugata ad un’attenzione frettolosa o superficiale o, peggio ancora, ad una mente impreparata e disarmata come quella di un bambino. L’immagine, colorata con sfumature diverse da ogni fruitore, per quanto cruda e sintetica, assume l’aspetto di un vero cangiante, il cui metro di misura è l’utente stesso, colto nelle sue mutevoli predisposizioni ad accoglierlo, decifrarlo e modificarlo nell’inconscio fino ad elaborarne una particolare dimensione da collocare nell’archivio della memoria.

Chi non possiede la cultura, gli strumenti sufficienti o semplicemente la volontà per affrontare un certo tipo di violenza, che la tv quotidianamente ci lancia addosso, cade nel pericoloso tranello dell’esercizio inconscio dell’addolcimento della tragedia mostrata dalle immagini; una sorta di reality show al contrario, dove le vittime vere sembrano far parte di un gioco che, proprio perché tale, automaticamente le declassa al rango di semplici comparse, che vivono e muoiono per il nostro esclusivo consumo.

La televisione racchiude in sé e comunica il senso implicito dell’assoluzione, anche quando esprime formalmente condanna. L’immagine televisiva tende ad auto-assolversi; da un lato documenta una tragedia, la sbatte al cospetto del pubblico fruitore, ma, contemporaneamente, dall’altro, si auto-depura, genera un inconscio vergine. Una volta finito in prima pagina, il mostro appare banalmente come uno di noi, la tragedia si sgonfia e la condanna pare già espiata quando, con un taglio netto, cambia la scena.

Michelangelo Dotta
da Nuovo Progetto febbraio 2007

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok