Al di là della cortina di ferro

Pubblicato il 29-01-2010

di Redazione Sermig

Danzica 1982. Danuta Walesa scrive un pensiero sul diario di Ernesto Olivero 20 anni fa cadeva il muro. 1982: dagli appunti di viaggio di Ernesto Olivero emerge un quadro inedito della Polonia di Walesa e del nascente Solidarnosc, il sindacato che provocò la rottura con il blocco sovietico.

di Ernesto Olivero

Quando la Polonia fu occupata dai russi e da altre forze del Patto di Varsavia, sentimmo l’esigenza di portare solidarietà a questo Paese. Parlai al Papa di questo mio desiderio. Mi incoraggiò a partire e mi diede la sua benedizione da portare riservatamente agli amici che avrei incontrato, ed in particolare alla famiglia Walesa, se fossi riuscito a raggiungerla a Danzica, proprio mentre Lech era tenuto prigioniero. In Polonia non si poteva entrare, ma alla Chiesa cattolica fu consentito di organizzare continue spedizioni con Tir pieni di viveri, per soccorrere la popolazione che era alla fame. In pochissimi giorni, preparammo anche noi due Tir con la ‘copertura’ della Caritas Internazionalis per il viaggio. Un accordo che saggiamente mi aveva invitato a prendere il cardinale Ballestrero. Su uno dei Tir potei salire anch’io. Destinazione: Katowice, ma la mia vera meta era Danzica. Passammo di notte per la Cecoslovacchia, ricordo l’immagine di tristezza che mi fece questa nazione. Non appena fummo in territorio polacco, l’autista si fermò di colpo e crollò dal sonno. Ed io continuavo a scrivere, a pensare, a pregare: ero in profonda unità con ognuno dei miei amici. Arrivammo a Katowice due giorni dopo, intorno alle sei.
 
Danzica 1982. Danuta Walesa scrive un pensiero sul diario di Ernesto Olivero
Danzica 1982. Danuta Walesa scrive un pensiero sul diario di Ernesto Olivero
L’autista conosceva bene la Polonia perché aveva già fatto tanti viaggi e aveva una particolare simpatia per questo Paese. Mi disse: “Adesso le faccio vedere chi sono i comunisti qui”. Chiese in polacco ad un passante qualsiasi: “Dobbiamo andare all’Arcivescovado a scaricare i Tir”. Lui si offrì di accompagnarci. L’autista mi presentò come un comunista. E l’altro di botto, con violenza: “Gli dica che resti qui, che io torno in Italia al posto suo!” Fummo accolti dal vescovo che ci fece riposare, dopodiché salutai il mio autista che doveva tornare in Italia mentre io avrei iniziato il mio viaggio all’interno della Polonia. Cercavo un amico polacco, Andrea Waudowski, lo stesso che mi aveva aiutato a conoscere il segretario del Papa e poi il Papa stesso. Stava predicando un ritiro spirituale in un paese molto distante da Katowice e trovarlo fu un’avventura. Quando mi vide, trasognò. Non avrebbe pensato mai che sarei andato a trovarlo in un momento così violento e così buio. Stetti con lui alcuni giorni: mi fece conoscere la Polonia, la gente che aveva paura. Una sera una macchina ci inseguì, ma riuscimmo a dileguarci in casa di amici sicuri. Avevo il grande desiderio di andare dalla moglie di Walesa, ma eravamo distanti centinaia di km e con la benzina razionata (poco più di 10 litri alla settimana) non potevamo certamente viaggiare molto. Quando però seppero che lavoravo per la pace, fecero una raccolta di tanti piccoli bidoni di benzina e trovarono una macchina. Andrea non poteva accompagnarmi e mi affidò a Giuseppe, un chierico e a Maria, un avvocato che avrebbe messo a disposizione la sua vettura, facendoci da autista.
 
Tra un Giuseppe e una Maria, mi sentii al sicuro e partimmo. Non dovevamo correre il rischio di essere fermati dalla polizia perché io avevo il permesso di stare solo a Katowice e poi tornare immediatamente in Italia. Attraversammo decine di posti di blocco; i poliziotti chiesero i documenti solo all’autista e a Maria che erano davanti; io stando zitto sembravo un polacco e non destavo sospetti. A 100 km da Danzica Maria si sentì male; con un po’ di francese, un po’ di latino e con tanti gesti, mi fece capire che dovevo guidare io. Non potevo certamente dirle che non avevo la patente, che non ero autorizzato. Guidai per 75 km, non trovando posti di blocco. Prima ne avevamo incontrati persino più d’uno per paese. Arrivammo a Danzica. Alle porte della città c’era un posto di blocco con i cannoni, come non avevo mai visto in vita mia! Ci fermammo sulla riva della Vistola, a 100 metri di distanza. Feci segno a Maria e a Giuseppe: “Mangiamo!” Pensate la scena: a 100 metri c’era il rischio di poter essere uccisi, di poter essere arrestati e noi per rassicurarli, facemmo finta di essere una tipica famiglia polacca: io potevo sembrare il marito di quella signora, l’altro, mio figlio o mio fratello. Potevamo comunque sembrare una famiglia che, pur in un momento difficile, faceva una piccola vacanza. Vedevamo i soldati con i cannocchiali: ci osservavano in tutti i particolari. Saremmo stati mezz’ora, un’ora, non ricordo bene, poi riprendemmo il viaggio, ma feci cenno a Maria che, per prudenza, guidasse lei. Naturalmente ci fermarono.
 
Anche qui non aprii bocca - non potevo fare altrimenti - e loro non mi chiesero i documenti. Entrammo in Danzica, la città da cui era partito un fermento di speranza per tutto il mondo. Ci fermammo al monumento di Lenin nella piazza dove erano iniziati i veri moti, cercando di continuare ad apparire turisti. Scattammo fotografie circondati da gente che ci osservava; sembravano persone normali, ma erano in realtà agenti in borghese. Andammo da un prete che era il confessore di Walesa ed il mio amico Giuseppe gli fece vedere una fotografia dove io ero ritratto con il Papa: quello era forse il mio vero passaporto. Loro capirono, mi fecero salire su un’ altra macchina e mi portarono in un quartiere popolare. Non passai inosservato. Bisogna immaginare la scena: scendere da questa macchina, tirare fuori almeno sette tra valigie, scatoloni e pacchi, sempre guardati a vista. Entrammo. Uno dei figli di Walesa stava tagliando i fili del telefono, per evitare intercettazioni. Avevano scoperto che una microspia lo collegava con la polizia anche quando il telefono non era in funzione. Abbracciai la moglie di Walesa e le portai il saluto e la benedizione del Papa. Il suo viso sprigionava grande tenerezza: aveva partorito da poco. Mi fece vedere la piccola Maria Vittoria. Le lasciai una catenina che Rosanna mi aveva dato per la bimba. Le lasciai anche un maglione, fatto da mia moglie, per suo marito.
 
Intanto i miei amici scoprirono che il mio permesso scadeva proprio in quel giorno, quindi non avremmo potuto tornare indietro. Avrei dovuto prendere l’aereo. Avevo regalato tutti i soldi che mi ero portato e dovettero ridarmene una parte. Enrico, la guardia del corpo di Walesa, mi accompagnò all’aeroporto. Mi regalarono dei distintivi di Solidarnosc che, con molta ingenuità, misi in una tasca del mio camiciotto. Arrivammo all’aeroporto con una corsa folle e riuscimmo a prendere un biglietto d’ aereo. Al controllo della polizia ricordai che mi avrebbero perquisito e avrebbero trovato quei distintivi. Pensai che sarei finito in prigione. Cercai di mantenere la calma. Il poliziotto mi fece entrare in uno sgabuzzino, toccò la camicia e sentendo tutte quelle chincaglierie, mi fece un cenno chiedendomi di cosa si trattasse. Prontamente tirai fuori dall’altra tasca del camiciotto alcuni gettoni del telefono. La Provvidenza fece il resto. All’arrivo ricordo il pianto dirotto di Maria, mia moglie, dei miei amici: la paura si era sciolta in lacrime. Ne valeva la pena! Ero andato per un grande gesto di amicizia e l’amicizia non bada alla paura, non bada a nulla. 

da Nuovo progetto novembre 2009

 

 

 

 

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