Amici cinesi

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


Un corso di italiano può diventare un’occasione non solo per gli studenti, ma anche per l’insegnante attento, che in loro incontra un'altra cultura.

di Stefania Cornali


Ho insegnato italiano ad alcuni cinesi della nostra valle, attraverso un progetto Caritas che aveva l’intento di permettere a questa gente di fare la prima cosa necessaria quando si arriva in un Paese straniero e dalla quale partono tutte le altre: capire e farsi capire.

Mi sono trovata davanti alcuni ragazzi molto giovani, dai 20 ai 28 anni, che già da parecchi anni soggiornavano in Italia, partiti quindi giovanissimi dalle loro case, nelle campagne poverissime della Cina. Non sono mai riuscita a sapere come siano arrivati qui, qualcuno si è sbottonato parlando di camion dentro cui stavano nascosti… comunque sia, sono arrivati illegalmente, armati solo della voglia di raggiungere finalmente una terra ricca e libera.

Nel mio gruppo c’erano ragazzi che lavoravano 14 ore in laboratorio e due ragazze con regolare permesso di soggiorno e lavoro in ditta italiana. La differenza tra i due era abissale. Le graziose ragazze arrivavano col sorriso grande, vestite all’occidentale, armate di cellulare, con gli esercizi di lingua sempre fatti e tanta voglia di socializzare; gli altri arrivavano in ritardo, ancora vestiti dal lavoro, sporchi e piuttosto intimiditi, quasi impauriti di raccontarsi un po’ di più.

Pensavo a quanta giovinezza sprecata così: senza senso, senza amicizie e tempo libero, dentro giornate e notti, mesi e anni nel diabolico paesaggio di quei laboratori. E mi chiedevo da quale inferno arrivassero per accettare una simile vita e come sopravvivessero psicologicamente a quella tortura, inflitta nel fiore della vita.

Mi parlavano di un unico pasto al giorno, stipendi da schiavitù e del desiderio di imparare l’italiano, per il lavoro sì, ma soprattutto per instaurare amicizie locali. Non credo di poter davvero immedesimarmi nelle loro vite di immigrati, illegali, malvisti, ignorati o braccati. I film non aiutano: perché di solito, le scene sono costruite in modo tale che anche il protagonista sfortunato è un po’ un eroe, nei cui panni non si sta poi così male.

Non credo avessero mai immaginato che questa vita illegale, preventivata per pochi anni iniziali, si sarebbe invece mangiata tutta la loro gioventù, privandoli della fiducia nel prossimo, facendoli diventare scontrosi e schivi dietro i tradizionali sorrisi, bruciando ogni desiderio di amore e bellezza. E i sogni, quei grandi giovani sogni di libertà e affermazione, messi a tacere lì, in fondo all’anima, come lontane stelle di speranza sul filo della follia.

Alla fine del corso, ricevo un loro regalo: è inaspettatamente piacevole e quasi mi commuove questo loro desiderio di reciprocità e l’invito insistente a continuare ad insegnar loro la lingua, in quello che è forse il loro unico contatto italiano non lavorativo, dentro un raro tempo sociale, ritagliato con tanti sacrifici e pagato con inchini e ore supplementari notturne al datore di lavoro.

Ricordo i loro occhi un po’ lucidi perché il corso non sarebbe continuato e non riesco ad incolparli di niente e non riesco neanche a chiamarli “i cinesi che lavorano in laboratorio”, sono per me volti e nomi ben precisi e distinti, ciascuno con la propria identità particolare e le proprie bellezze; adesso per me sono compagni di viaggio da rispettare e accogliere e li posso chiamare solo così:... amici.

Stefania Cornali
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CINA: 4 giugno 1989








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