Carcere e scuola contro il bullismo

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


Partito da Padova, sostenuto dal Comune e dal Centro di Servizio per il volontariato, il progetto che ha messo a confronto le scuole con il carcere è stato presentato il 12 giugno alla Sala Stampa della Camera.

Red. Ristretti Orizzonti


L’INVITO DI OLGA D’ANTONA AI GIOVANI: NON COLTIVATE LA CULTURA DELL’ODIO

Partito da Padova, sostenuto dal Comune e dal Centro di Servizio per il volontariato, il progetto che ha messo a confronto le scuole con il carcere è stato presentato il 12 giugno alla Sala Stampa della Camera. Una presentazione particolare, dove hanno preso la parola i protagonisti stessi, studenti, detenuti, insegnanti, operatori. Quelli che seguono sono gli interventi di un detenuto, di una studentessa e di un’insegnante, e poi di una “fiancheggiatrice” particolare di questa iniziativa, Olga D’Antona, la vedova del giurista ucciso dalle Brigate Rosse, che ai ragazzi delle scuole ha dato forse il messaggio più importante: un invito a smetterla di coltivare la cultura dell’odio.

QUELLO DEGLI STUDENTI È UN GIUDIZIO SEVERO

Il nostro è un progetto che è partito in sordina e che si è man mano allargato tramite il passaparola fra gli insegnanti, che sono rimasti soddisfatti del tipo di ritorno che questa esperienza ha avuto nella classe, e l’hanno poi consigliata ai colleghi. Fare questa esperienza è davvero faticoso, ho detto spesso che per me i quasi 90 incontri che abbiamo fatto quest’anno sono stati come subire 90 processi, e non basta neppure questo, perché quando uno commette un reato e compare davanti a un giudice, viene condannato nel nome del popolo italiano. Ma andare nelle scuole significa affrontare in qualche modo direttamente il giudizio “del” popolo italiano, e non “nel nome di”, trovarseli davanti, i cittadini, e allora ci si sente davvero disarmati, specie dinanzi ai ragazzi. Non ci si fa assolutamente l’abitudine, ci si va davanti con un senso - non voglio dire di angoscia e di paura - ma certo di estrema fatica, anche perché questi percorsi iniziano spesso con un momento di scrittura, in cui i ragazzi raccontano quello che pensano sui reati e sulle pene, e sono giudizi durissimi.

Non si va quindi ad affrontare una platea ben disposta, però c’è sempre un certo sollievo nel costatare che, pur partendo dai pregiudizi, quando poi si trovano dinanzi la persona i ragazzi sono capaci di giudizio, ma è un giudizio severo, che non lascia mai spazio all’indulgenza… se noi detenuti cadiamo nel vittimismo o nell’autogiustificazione il loro dito puntato arriva subito.
È successo in un incontro in carcere che una ragazza ha raccontato di avere avuto i ladri in casa, e ha spiegato che, al di là del valore di quello che le è stato rubato, è la qualità della sua vita che da quel momento è cambiata, è la paura che ha cominciato a condizionare le sue giornate. Io credo allora che solo quando uno viene messo di fronte alle sue vittime, per confrontarsi, giustificarsi, solo quando quella porta che hai forzato, quel cassetto che hai rovistato assumono il volto umano della tua vittima, rimani davvero scioccato ed inizi a valutare le cose in maniera diversa.

Graziano Scialpi

SONO ENTRATA IN CARCERE CON MIO PADRE PERCHÉ AVEVO PAURA

Io ho accettato subito di partecipare a questo progetto, perché sono da sempre cresciuta con l’idea di un carcere chiuso, un luogo cupo nel quale ci sono persone che non devono più far parte della società perché hanno sbagliato. All’inizio avevo questa idea fissa, poi però partecipando a questi incontri l’attività mi è piaciuta e la mia idea è in gran parte cambiata: ora penso sia giusto rieducare i carcerati, reintegrarli nella società.

Inoltre devo ammettere che io sono entrata in carcere con mio padre perché avevo paura ed ho ancora paura, però questa esperienza mi è servita: e non si tratta solo di educazione ma anche di prevenzione, perché io per quelle due o tre ore in cui sono entrata al carcere Due Palazzi mi sono sentita privata della libertà e mi sono dunque domandata come ci si debba sentire a vivere a lungo senza libertà. Penso sia stata una esperienza importante, spero che continui e sia proposta anche ad altri studenti.

Giulia B.
studentessa dell’Istituto Tecnico P. Scalcerle

ANCHE I GENITORI COINVOLTI NEL PROGETTO

Vorrei spiegare il ruolo che hanno avuto i genitori in questo progetto: quest’anno le nostre attività ne hanno coinvolti alcuni, che hanno partecipato venendo con noi in carcere. I genitori sono sempre informati attraverso delle lettere, vengono a parlarci, spesso e giustamente manifestano un’apprensione e si chiedono come mai i loro ragazzi devono andare proprio in carcere. In realtà poi abbiamo rilevato che i genitori hanno reagito positivamente e che loro stessi hanno registrato ripercussioni positive anche a livello di relazioni padre-figlio, perché spesso attraverso le storie carcerarie emergono anche problemi familiari molto grossi e questo in qualche modo li ha caricati, motivati.

Ma anche noi insegnanti partiamo da una condizione di ignoranza nei confronti del mondo carcerario, e devo dire che questa attività non offre solo una grandissima mole di informazioni, ma ha consentito ai ragazzi un contatto con persone colpevoli, che perciò si trovano in carcere, e che però hanno anche dimostrato una grande voglia di ricostruirsi un percorso di vita dopo il deragliamento.

E poi c’è la scoperta di persone che fanno un enorme lavoro sommerso in carcere, mi riferisco agli operatori e ai volontari, questi ultimi lo fanno gratis e credo che diano ai ragazzi un esempio assolutamente fondamentale, e mi pare anche che abbiano messo in moto una voglia di provare a fare direttamente volontariato. Abbiano così instillato l’idea che non tutto è monetizzato, e anzi molto si può fare anche senza avere ricompense.

Un altro punto di forza è quello di passare dai cattivi di carta – i cattivi scoperti come personaggi letterari – ai cattivi in carne ed ossa, e quindi il contatto diretto con persone che hanno avuto delle storie molto pesanti. E devo dire che questo è stato l’aspetto più interessante, perché ha generato una sorta di effetto specchio: mettersi di fronte a loro, ci ha reso – non solo i ragazzi ma anche noi – consapevoli di un lato oscuro che ognuno porta dentro di sé e che magari pensava di non avere, ci ha fatto scoprire che bene e male non sono totalmente separati, ma che si tratta di una questione di dosaggio, in un equilibrio delicato che – specie all’età di 15-16 anni – è molto facile si rompa.

Giuliana De Cecchi
insegnante dell’Istituto Tecnico P. Scalcerle

UNA INIZIATIVA CORAGGIOSA IN UNA SOCIETÀ INCATTIVITA

Non avrei titolo ad essere qui oggi se non per l’esperienza, fatta di recente, di un incontro in carcere, nella redazione di Ristretti Orizzonti. In quell’occasione mi sono resa conto di quanto importante possa essere il lavoro dei volontari all’interno delle carceri. Io lì dentro ho trovato anche delle persone ricche di sensibilità, delle persone che hanno attraversato un percorso di errore prima, e poi lentamente di consapevolezza dell’errore compiuto e di volontà di riscatto.

Ora noi sappiamo quanto male sia stato accolto dai cittadini italiani il provvedimento dell’indulto e quanta - se volete - perdita di consenso abbia subito chi si è assunto la responsabilità politica di vararlo. Io devo dire che non mi pento di questo atto preso dal Parlamento e soprattutto non me ne pento dopo l’esperienza che mi è stato permesso di fare entrando al Due Palazzi di Padova. Avevo già girato altri istituti penitenziari, ma un conto è entrare in carcere e vedere questi luoghi di sofferenza – e soprattutto le carceri di massima sicurezza sono dei luoghi di sofferenza – un altro conto è vedere che questi luoghi di sofferenza possono diventare luoghi di riflessione ed educazione, e questo ci dà speranza.

Credo che il livello della democrazia di un Paese si misuri anche dalla capacità di offrire accoglienza a chi, dopo l’errore commesso, si è ravveduto. Io mi sono convinta che isolare completamente le persone, farle vivere completamente nella sofferenza le possa solo incattivire. Sono convinta che noi dobbiamo – non soltanto per un sentimento di solidarietà e generosità, che pure sarebbe già di per sé un ottimo modo di sentire – ma anche per senso di ragionevolezza, credere profondamente ad un tessuto sociale che si può rompere e poi però ricomporre, e allora è importante questo lavoro nelle scuole, è straordinario perché i suoi effetti benefici vanno in tutte le direzioni: questa esperienza può fare davvero bene alle persone che stanno dentro e a quelle che stanno fuori!

Credo che questo progetto sia il frutto di una decisione coraggiosa, perché proporre un’iniziativa del genere non è facile, in questa società che si è incattivita, che genera e alimenta odio e incomprensione… Guardate però che l’odio non porta a maggior sicurezza, anzi mette a rischio la sicurezza. Credo che se ogni cittadino dedicasse un’ora all’anno a cercare un contatto con realtà chiuse, nascoste e di cui si sa molto poco, sarebbe una cosa straordinariamente utile.

Olga D’Antona
parlamentare, vedova del giurista ucciso dalle Brigate Rosse


a cura della redazione di Ristretti Orizzonti
giornale dal carcere Due Palazzi di Padova

www.ristretti.it

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