Cervelli a perdere

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


La fuga all’estero dei giovani professionisti italiani, benché se ne parli poco, coinvolge migliaia di persone e, conseguentemente, di famiglie. Pubblichiamo due testimonianze.

A cura della redazione


UN CURRICULUM PESANTE
di Emanuele Salomone

Mi sono sempre considerato un ragazzo dalla mentalità aperta e flessibile. In gioventù ho studiato per quattro anni a Londra (dove mio padre aveva trasferito la famiglia per motivi di lavoro) e ho sempre mantenuto la passione per il confronto con culture diverse dalla mia.
Dal 1995 al dicembre 2002 sono stato regolarmente impiegato in una grande industria multinazionale italiana (tra l’altro con frequenti e prolungate trasferte estere): un lavoro che, in anni meno turbolenti, mi avrebbe accompagnato fino alla pensione.

Tuttavia, le cose cambiano e nel gennaio 2003, causa ristrutturazioni, mi trovo disoccupato in cerca di un nuovo impiego. Cerco di rientrare, in Italia, nel settore da cui provenivo (industrie del settore elettrotecnico, una laurea in ingegneria in tasca e 8 anni di esperienza in un settore specifico - mi dico - non dovrebbe essere difficile…) ma inutilmente.
Dopo mesi di ricerca, mi viene offerto un ruolo tecnico nel Comitato Organizzatore dei Giochi Olimpici di Torino2006. Accetto con piacere, soprattutto perché volevo tornare a lavorare in un ambiente multinazionale ad un progetto che mi appassionasse.
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Dopo tre anni di intenso ed appagante lavoro, a giugno 2006 sono nuovamente alla ricerca di un’occupazione. Decido di ritentare presso le medie e grandi aziende italiane, forte dell’esperienza pregressa e delle doti manageriali acquisite lavorando per le Olimpiadi.

Dopo 4 mesi di infruttuose ricerche in Italia, vengo contattato dal Comitato Organizzatore dei XV Giochi Asiatici a Doha in Qatar, che a fronte dei commenti positivi ricevuti per il mio operato a Torino, mi offre di far parte della squadra tecnica del Comitato Organizzatore. Accetto con piacere, anche perché sarà la prima esperienza di lavoro in un paese arabo (in precedenza avevo già lavorato in Cina, in Indonesia e in Inghilterra).
A posteriori, l’esperienza è stata decisamente appagante sia dal punto di vista lavorativo che umano, che economico.
Terminata l’esperienza, torno in Italia, sono nuovamente alla ricerca di un’occupazione. Per farla breve, dopo aver invano cercato di ricollocarmi in Italia (altri mesi persi), ho accettato volentieri un ruolo di prestigio e responsabilità nel Comitato Organizzatore dei XV Giochi Pan-Americani a Rio de Janeiro, dove attualmente lavoro.

Seguo sempre con interesse i blogs dei principali periodici italiani relativi alla fuga di personale qualificato all’estero e purtroppo non posso che confermare gli agrodolci commenti riportati dagli espatriati. La situazione lavorativa italiana è ingessata: non c’è ricambio generazionale. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Chi ha perduto un lavoro qualificato ed è senza padrini e sponsor (leggi raccomandazioni), difficilmente riesce a ricollocarsi spendendo solo la propria professionalità ed esperienza. Trovano più facilmente lavoro neo-laureati alle prime armi (che costano poco, che accettano contratti da interinali sottopagati e a termine) piuttosto che professionisti con più esperienza che, a detta delle aziende, costano “troppo”. Il “troppo” è un concetto relativo: io (non ricco di famiglia) chiedo troppo (ma non sono un dirigente) solo perché ho scelto di acquistare casa con mia moglie (che ha un lavoro precario) ed ho un mutuo e una casa da mantenere - ovvero ho semplicemente scelto di vivere la vita, come hanno fatto i nostri genitori.

In Italia si mangia bene, si è immersi nell’arte, ci sono gli amici e i genitori: ma se a tutto ciò non corrisponde la possibilità di godere di questi vantaggi perché non si ha un lavoro, allora bisogna scegliere. A detta di molti, in Italia, ho un curriculum “pesante”: invece di vedere la mia esperienza come un’opportunità, la vedono come un problema. All’estero, invece, ho sempre trovato un atteggiamento positivo a riguardo; le volte che ho accettato un lavoro, ho sempre ricevuto un trattamento economico commisurato all’attività svolta e da svolgere, ed alle competenze apportate.

Io ho accettato di “fuggire” (anche se finora temporaneamente) all’estero per seguire un lavoro che mi permetta di fare progetti con la mia famiglia e mi dia qualche soddisfazione professionale.
La nuova emigrazione comporta capacità di adattamento, conoscenze di base almeno universitarie ed esperienza lavorativa. Le esperienze che ho vissuto durante le varie fughe, da quando ero giovane con la famiglia a Londra, mi hanno arricchito accrescendo il mio bagaglio professionale e umano, aprendomi la mente, preparandomi, spero, al mondo che sta cambiando.


DOTTORATO NEGLI USA
intervista a cura della redazione
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New York
Molti sono i laureati italiani che fanno domanda presso università estere per il dottorato di ricerca. Le università statunitensi sono tra le più gettonate. Il superamento dell’esame di lingua, la presentazione del curriculum e la relazione degli insegnanti fanno parte del pacchetto che accompagna la domanda, la cui accettazione comporta una borsa di studio da parte dell’università che offre il dottorato. Paolo Morganti ha ultimato il terzo dei cinque anni di dottorato in economia alla New York University (NYU). Mentre i primi due anni sono soprattutto di partecipazione a corsi, dal terzo inizia l’attività di ricerca e di insegnamento come assistente.

Perché hai scelto di andare negli USA?
Perché il sistema americano è quello che offre più opportunità ed una migliore istruzione post-laurea.

Cosa offre di meglio e di più rispetto al nostro, relativamente al dottorato?
I punti sono tanti: nel sistema americano i professori - teniamo presente che molti sono stranieri, io ho avuto ad esempio anche insegnanti italiani, cinesi, israeliani, tedeschi - sono attenti agli studenti, desiderosi di lavorare e molto preparati. Le università americane sono interessate a produrre ricerca e a trasmetterla. Questo crea un ambiente ideale per assorbire nuove idee e per far circolare le proprie.

Quali sono le difficoltà di inserimento che hai avuto?
A parte qualche problema iniziale con la lingua, la difficoltà maggiore è stata quella di reggere gli intensi ritmi del dottorato americano.

Contatti con altri connazionali?
È facile incontrare altri italiani nell’ambiente universitario, sia come docenti che come studenti.

All’estero per sempre o solo una parentesi?
Spero solo una parentesi, ma dipende tutto da quello che troverò in Italia una volta terminato il dottorato.

A cura della redazione
da Nuovo Progetto giugno-luglio 2007
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