Hussar, profeta del dialogo

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


Hussar, profeta del dialogo


Nevé Shalom è un pugno di case adagiato sul cocuzzolo di una collina, in mezzo agli ulivi e ai campi tra Gerusalemme e Tel Aviv. L’8 febbraio all’Oasi della pace (questo il significato del doppio nome in ebraico e in arabo: Nevé Shalom/Wahat al-Salam) non è un giorno qualsiasi. È il giorno in cui si fa memoria della morte di padre Bruno Hussar, il fondatore.

Nella “Dumia”, il Santuario del Silenzio, la cupola bianca dove gli uomini di tutte le religioni possono pregare Dio, gli abitanti di questo singolare condominio solidale ricordano il mandato spirituale lasciato da quel frate domenicano ebreo definito dal cardinale Carlo Maria Martini «un profeta di riconciliazione e pace in Israele».

Ma chi è stato Bruno Hussar, e quale è oggi la sua eredità? Nato in Egitto nel 1911 da padre ungherese e madre francese, entrambi ebrei non praticanti, frequentò al Cairo il liceo italiano. All’età di 18 anni si trasferì in Francia, conseguendo a Parigi la laurea in ingegneria. Nel dicembre del 1945 entrò nell’ordine dei domenicani, diventando sacerdote nel 1950. Poi la svolta decisiva: i superiori gli affidarono il compito di aprire a Gerusalemme un centro di studi sull’ebraismo (dal cui tronco nascerà la Casa di sant’Isaia, laboratorio ante litteram del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo). In quel periodo si va sempre più precisando in Hussar una certezza profonda: l’appartenenza a Israele pur nella nuova identità cristiana.

Oggi i tempi sono mutati e si guarda con simpatia al dialogo tra ebraismo e cristianesimo. In Israele esiste una comunità cattolica di lingua ebraica che si propone come «ponte» non senza difficoltà e incomprensioni) tra mondo ebraico e mondo cristiano. Ma a quei tempi le cose erano differenti. Negli ambienti cristiani, scrive Hussar nel libro autobiografico “Quando la nube si alzava...”, “gli ebrei erano ancora perfidi, ladri e bugiardi”.

Gli anni del Concilio portano grazie a Dio una ventata di novità. Hussar affianca il cardinale Agostino Bea nell’elaborazione del «testo ebraico», divenuto poi il quarto paragrafo della Dichiarazione “Nostra Aetate” sull’atteggiamento della Chiesa verso le religioni non cristiane. Il placet a quel testo, il 20 ottobre 1965, non fu né facile né scontato da parte dei Padri conciliari. Il contributo di Hussar all’approvazione del documento fu tale che due settimane dopo ricevette la cittadinanza d’Israele che aveva atteso per anni.

Nel turbolento Medio Oriente scoppiava pochi anni dopo il sanguinoso conflitto dei Sei Giorni (1967), che aumentava ancora di più la distanza tra mondo arabo e mondo israeliano. Come segno concreto di pace e di riconciliazione tra i due popoli che si fronteggiano come nemici in Terra Santa, padre Bruno comincia a coltivare il sogno di Nevé Shalom, un villaggio nel quale ebrei e arabi palestinesi possano vivere in pace e amicizia.
A partire dal 1974 l’Oasi della pace comincia a prendere forma.
«Il suo principale merito - commenta Bruno Segre, presidente dell’Associazione Amici di Nevé Shalom - è quello di essere diventato motore di un importantissimo mutamento di mentalità. Gli intoppi sul cammino non mancano, ma il villaggio resiste come modello di convivenza ragionevole e secolarizzata fra persone che si identificano con tradizioni religiose, culture, nazionalità diverse e conflittuali».

Una classe della scuola primaria sotto l'arcobaleno della pace
E dell’eredità spirituale di padre Hussar, che cosa resta? La risposta va cercata certamente a Nevé Shalom, simbolo di una pace possibile, ma ancora di più in un rimando costante a Dio e alla preghiera, nella consapevolezza che i costruttori di pace devono chiedere con insistenza il dono dell’ascolto e della comprensione. Anche nei tempi bui, padre Bruno ha insegnato ai suoi figli a restare saldi, come sentinelle che scrutano l’aurora. In una riflessione sul processo di pace nel Vicino Oriente, dopo gli accordi di Oslo del 1994, annotava: «Gli estremisti dei due campi fanno già di tutto per frustrare gli sforzi verso la pace. La nostra esperienza ci ha insegnato che non bisogna rinunciare a sperare».

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