Il Dalai Lama medaglia d’oro USA

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


Il 17 ottobre scorso il Dalai Lama ha ricevuto la più alta onorificenza civile negli Usa, la Medaglia d'Oro del Congresso. Da Washington alcuni brani del suo discorso.

Interdependence – newsletter n.3

Mentre il silenzio è calato sulla Birmania e sulle atrocità commesse, un evento apparentemente del tutto separato ha concentrato l’attenzione internazionale: la visita del Dalai Lama negli Stati Uniti, dove gli è stata conferita la medaglia d’oro del Congresso americano.
Il Dalai Lama, in un discorso di cui riportiamo alcuni brani, ha colto l’occasione per precisare la sua posizione rispetto al governo cinese e riaffermare inequivocabilmente la scelta della nonviolenza.
Presidente Bush, Signora Laura Bush, Presidente Pelosi, Senatore Byrd, mio collega nel premio Nobel Elie Wiesel, onorevoli membri del Congresso, fratelli e sorelle.

È un grande onore per me ricevere la Medaglia d’Oro del Congresso. Questo riconoscimento porterà grandissima gioia e incoraggiamento alla gente del Tibet verso la quale ho una speciale responsabilità. Il suo benessere è la mia motivazione costante e mi considero sempre il suo libero portavoce. Ritengo che questo premio mandi anche un forte messaggio alle molte persone impegnate a promuovere la pace, la comprensione e l’armonia.

dalai.jpg
Il Dalai Lama a Washington

A livello personale, sono profondamente commosso dal fatto che questo grande onore sia stato conferito a me, un monaco buddhista nato da una famiglia semplice proveniente dall’Amdo, una remota regione del Tibet. (…) La mia educazione formale nel pensiero buddhista mi ha fatto conoscere concetti quali l’interdipendenza e la facoltà umana di sviluppare un’infinita compassione, che mi hanno consentito di riconoscere l’importanza della responsabilità universale, della nonviolenza e della comprensione interreligiosa. Oggi, è la certezza di questi valori la fonte della mia forte motivazione a promuovere i valori umani fondamentali. Anche nella mia lotta per i diritti e per una maggiore libertà del popolo tibetano, questi valori sono alla base del mio impegno sulla via della nonviolenza. (…)

Per quanto riguarda la mia patria, il Tibet, oggi molta gente, sia dentro sia fuori il Paese, è fortemente preoccupata delle conseguenze del rapido cambiamento in atto. Ogni anno la popolazione cinese all’interno del Tibet aumenta a una velocità allarmante. E, se dobbiamo giudicare dall’esempio che ci viene dalla popolazione di Lhasa, c’è il reale pericolo che i Tibetani si riducano a un’insignificante minoranza nella loro stessa patria. Questo rapido aumento della popolazione costituisce inoltre una seria minaccia per il fragile equilibrio ambientale del Tibet. Essendo la sorgente di molti dei grandi fiumi dell’Asia, ogni significativa alterazione dell’ecologia del Tibet si ripercuoterà sulla vita di centinaia di milioni di persone. Inoltre, essendo il Tibet situato tra India e Cina, la pacifica risoluzione del problema tibetano è di grande importanza per una pace duratura e un rapporto di amicizia tra questi due grandi vicini.

Per quanto riguarda il futuro del Tibet, mi sia dato cogliere questa occasione per affermare categoricamente che non sto chiedendo l’indipendenza. Sto chiedendo una significativa autonomia per il popolo tibetano nell’ambito della Repubblica Popolare Cinese. Se la reale preoccupazione della dirigenza cinese è l’unità e la stabilità della Cina, ho pienamente recepito la loro preoccupazione. Ho scelto di adottare questa posizione perché credo, alla luce degli ovvi benefici, specialmente per quanto riguarda lo sviluppo economico, che essa sia quella più vantaggiosa per il popolo tibetano. Non ho inoltre intenzione di usare qualsiasi eventuale accordo sull’autonomia come gradino verso l’indipendenza del Tibet.

dalai1.jpg Fin da giovane, da quando fui costretto ad assumere la piena responsabilità del governo, cominciai a introdurre in Tibet alcuni fondamentali cambiamenti. Sfortunatamente essi furono interrotti dagli sconvolgimenti politici che ebbero luogo. Nondimeno, poco dopo il nostro arrivo in India come rifugiati, abbiamo democratizzato il nostro sistema politico e adottato una costituzione democratica che stabilisce linee guida per la nostra amministrazione in esilio.
Anche la nostra dirigenza politica è ora direttamente eletta dal popolo sulla base di un mandato di cinque anni. Siamo stati inoltre in grado di preservare e di praticare nell’esilio molti aspetti importanti della nostra cultura e spiritualità. Ciò si deve in larga misura alla gentilezza dell’India e del suo popolo. (…)

Un’altra grave preoccupazione del governo cinese è la sua mancanza di legittimità in Tibet. Non si può riscrivere la storia, ma una soluzione accettabile da entrambe le parti potrebbe legittimare la posizione della Cina e io sono pronto a usare la mia posizione e la mia influenza sui tibetani per ottenere il loro consenso su questo punto. Vorrei inoltre ribadire in questa sede che non ho un’agenda nascosta. La mia decisione di non accettare alcuna carica politica in un Tibet futuro è definitiva.

Le autorità cinesi affermano che io coltivo ostilità verso la Cina e che cerco attivamente di minare il suo benessere. Ciò è totalmente falso. Ho sempre incoraggiato i leader mondiali a impegnarsi con la Cina. Ho sostenuto l’ingresso della Cina nel WTO e l’assegnazione delle Olimpiadi estive a Pechino. Ho scelto di fare così con la speranza che la Cina sarebbe diventata un paese più aperto, tollerante e responsabile. (…)

È arrivato il momento che il dialogo da noi intrapreso con la dirigenza cinese conduca con successo alla realizzazione di una significativa autonomia per il Tibet, come garantito dalla costituzione cinese e precisato più in dettaglio dal “Libro Bianco sull’Autonomia Etnico-Regionale del Tibet” pubblicato dal Consiglio di Stato cinese. Mi sia dato cogliere questa occasione per chiedere una volta ancora alla dirigenza cinese di riconoscere i gravi problemi esistenti in Tibet, le giuste rivendicazioni e il profondo risentimento del popolo tibetano all’interno del paese, e di avere il coraggio e la saggezza di affrontare questi problemi realisticamente, in uno spirito di riconciliazione. E chiedo a voi, miei amici americani, di compiere ogni sforzo per trovare il modo di convincere la dirigenza cinese della mia sincerità e di aiutare la prosecuzione del nostro processo di dialogo.

In ultima analisi, molti dei problemi mondiali hanno le loro radici nell’ineguaglianza e nell’ingiustizia a livello economico, politico e sociale. Fondamentalmente, è in gioco il benessere di tutti noi. Che si tratti della sofferenza della povertà in una parte del mondo, oppure della negazione della libertà e dei fondamentali diritti umani in un’altra, non dovremmo mai percepire tali situazioni come vicende totalmente isolate. Le loro ripercussioni saranno avvertite ovunque.

Vorrei appellarmi a voi affinché assumiate un ruolo guida nella conduzione di un’azione internazionale efficace che sappia affrontare questi temi, compreso quello dell’immenso squilibrio economico. Credo sia giunto il tempo di affrontare i problemi del mondo partendo dalla prospettiva dell’unità del genere umano e da una profonda comprensione dell’interconnessione di questo nostro mondo odierno.

In conclusione, a nome di sei milioni di tibetani, desidero cogliere questa occasione per riconoscere dal più profondo del mio cuore il sostegno offertoci dal popolo americano e dal suo governo. Il vostro costante sostegno è importante. Vi ringrazio ancora una volta per il grande onore che mi avete concesso oggi.

Grazie.

Estratto da: Interdependence.it
Newsletter n.3

Altri articoli:
PECHINO 2008: gli indesiderati
Torino 2006: sciopero della fame per il Tibet
Per non dimenticare Assisi

 

 

 

 

 

 

 

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok