Il perdono è l'unica strada

Pubblicato il 10-08-2011

di Matteo Spicuglia

Percorsi di riconciliazione nei drammi dell’Africa. Parla Renato Kizito Sesana, missionario comboniano in Kenya. Il perdono come chiave per arrivare alla pace con sé stessi e con gli altri.
  intervista a Renato Kizito Sesana di Matteo Spicuglia
 
Padre Kizito vive in Africa da 30 anni. Zambia, Kenya, Sudan: Paesi e contesti diversi in cui sono nati fiori di bene. La speranza impastata con i drammi della vita, la riconciliazione come conseguenza logica, ma mai scontata. E ad ogni livello: sociale, comunitario, personale. Ha vissuto in prima persona le contraddizioni del continente, il tradimento degli amici, la calunnia. Ferite personali che non hanno intaccato le convinzioni maturate in tanti anni di missione. Perché, dice oggi padre Kizito, “se non perdoniamo, non riusciremo mai ad essere in pace”.
 
Come si fa a perdokizito.jpgnare chi ti fa del male?
Inutile nasconderlo: è difficile. Forse, per chi crede nel Vangelo è più facile. Ma sottolineo il forse. Non ho una ricetta in tasca, perché quando ci si trova nelle situazioni concrete, il perdono è difficile per tutti. Sono convinto che si possa imparare solo dall’esempio. Solo così possiamo dire qualcosa sulla riconciliazione. Tutto passa dall’esempio che abbiamo davanti. Le lezioni di catechismo sono importanti, ma non servono a niente se non ci confrontiamo con vite credibili.
 
Quali sono stati i tuoi maestri di riconciliazione?
Ho visto tanta gente capace di superare le divisioni, anche gli odi tribali. Penso agli scontri in Kenya del 1992, tutti strumentalizzati e guidati dalla politica. Di fronte a morti e dolori immensi, era commovente vedere come gli anziani dei villaggi riuscissero a riportare la pace nelle loro comunità. Non era per niente facile, anche perché la sensazione era che il male fosse davvero più furbo e potente di ogni sforzo.
 
Che metodo usavano quegli anziani? 
La semplicità. A volte vedevi questi vecchi che con delicatezza dicevano: “Fermiamoci a riflettere. Non abbiamo ragioni di scontrarci tra di noi, facciamo dei riti tradizionali di pace”. Certo, la realtà è più complessa e i riti tradizionali spesso non bastano. Oggi, il problema è che il male quasi sempre arriva da fuori, alimentato da forze e interessi molto più grandi. Gli africani lo sanno bene e spesso nasce in loro un senso di impotenza, per esempio, quando vedono che le armi arrivano dall’esterno o che ci sono persone pagate per creare divisioni.
 
Cosa significa oggi parlare di riconciliazione in Africa?
Le divisioni tribali sono ancora una sfida. Penso a Nairobi, agli scontri seguiti alle ultime elezioni. Come dicevo, queste divisioni spesso sono pilotate, hanno radici recenti e superficiali. L’etnia è stata esaltata e sfruttata politicamente da chi può trarne un vantaggio. Al tempo stesso, non si può negare l’esistenza di culture e tradizioni che favoriscono un senso di appartenenza e, a volte, di contrapposizione molto forte. Ci si scontra in Italia, lo stesso succede in Africa.
 
Come si esce da questo stallo?
Non ci sono molte strade da percorrere. Per me riconciliazione significa prima di tutto aiutare le persone a dialogare. Serve un confronto faccia a faccia. Chi sta dalle due parti di una barricata deve fare uno sforzo. Non importa se si è affrontati fisicamente o se si ha ceduto alla violenza. Questo passo è necessario. Nulla può partire, al di fuori di un incontro.  
 
Matteo Spicuglia
 
 
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