LA CRISI DEL SINDACATO

Pubblicato il 31-08-2009

di Matteo Spicuglia

 

Dopo decenni di lotte collettive, il mondo del lavoro torna a dividersi in una miriade di rapporti individuali difficilmente rappresentabili. Una situazione che interpella il modello di sindacalismo attuale. Ne abbiamo parlato con Bruno Manghi.

di Matteo Spicuglia

 

"Il ruolo del sindacato è cambiato radicalmente rispetto al passato e non sempre riesce a rispondere alle trasformazioni del mercato del lavoro". Bruno Manghi conosce a fondo la realtà sindacale, prima come dirigente della Cisl, poi come apprezzato sociologo del lavoro. Discutere con lui della tutela dei lavoratori nel contesto presente significa confrontarsi con più questioni: un sindacato costretto a riposizionarsi, un individualismo che mette in crisi l’idea stessa di appartenenza, un lavoro flessibile più difficile da rappresentare.

Trent’anni fa, in un libro intitolato Declinare, crescendo, lei ipotizzava una crisi del sindacato, specie nella capacità di elaborare una propria visione politica e sociale. Siamo arrivati a questo punto ?

Direi di sì e il fenomeno riguarda tutto l’Occidente. Intendiamoci, il sindacato rimane un soggetto importante, dotato di risorse e di strutture, ma ha compiuto un declino, se si pensa al sindacalismo protagonista di 30-40 anni fa. Le organizzazioni hanno ancora una funzione utile, ma non sono più al centro del processo di emancipazione delle classi lavoratrici.


Da cosa dipende questo ridimensionamento istituzionale?


I fattori sono molti. Per prima cosa, in società mature il lavoro dipendente ha bisogno di meno tutele e, di norma, ci si rivolge al sindacato soltanto in caso di crisi. C’è poi il fenomeno del nuovo lavoro flessibile, difficile da rappresentare. È il cosiddetto lavoro fluttuante, a volte disperso, a cui il sindacato non riesce sempre a dare voce.

Come mai ?

Il sindacalismo si è impigrito. Tanto per fare un esempio, è più facile rappresentare i lavoratori della Telecom, piuttosto che dei giovani grafici pubblicitari con semplice partita Iva.

Insomma, è in gioco una crisi di rappresentanza?

Diciamo che il sindacato tende a rappresentare le fasce tradizionali di lavoratori, che tuttavia si riducono in termini numerici. Il dato di oggi è l’aumento del lavoro flessibile, che necessita di forme rappresentative diverse dal passato. La sfida è difficile e costosa, perché richiede uno slancio ideale non sempre presente. Al tempo stesso, si dovrebbero ripensare le stesse strutture organizzative, trasferendo anche molte risorse.

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Questo non avviene...

Esistono alcune realtà associative e sindacali che prestano attenzione al fenomeno, ma sono ancora una minoranza. E poi, c’è una parte importante della classe  sindacale, ormai invecchiata, che spesso privilegia le funzioni di rappresentanza. Da tenere conto, inoltre, della presenza di grandi apparati professionali che sono, al tempo stesso, un punto di forza e un limite. In Italia, il sindacato fa largo uso del volontariato (circa 600mila persone), ma mantiene circa 10-15mila professionisti. È un processo di burocratizzazione che rischia di creare rigidità.

Quanto conta, nella crisi che descrive, il rapporto tra sindacato e politica e gli eventuali condizionamenti ?

Il problema chiaramente si pone. Penso, per esempio, ad alcune posizioni della Cgil. La tentazione a volte è quella di assumere posizioni a seconda delle stagioni. Se questo aveva un suo perché in presenza di grandi partiti di massa, oggi il sindacato rischia di dirsela e cantarsela da solo. E capita così che a volte il merito delle questioni passi in secondo piano.

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È anche per questo che i sondaggi fanno emergere un calo di fiducia degli italiani verso le organizzazioni sindacali?

La tendenza emerge anche da ricerche più affidabili dei sondaggi di opinione. Questo avviene principalmente per due motivi. Il primo è che il sindacato mantiene ancora l’immagine dei suoi tempi migliori: quella del giustiziere. Quando questa prosa culturale si scontra con la realtà e i suoi limiti, anche l’immagine del sindacato ne esce compromessa. La seconda spiegazione è legata al fatto che, come dicevo prima, vengono assecondati interessi più facili da rappresentare.

Quanto pesano l’individualismo e la fatica a ragionare al plurale?


Hanno chiaramente un ruolo. Pensi al senso di comunità che poteva crearsi in una valle mineraria nel 1800. Condizioni di vita durissime, che davano vita ad un fronte comune. La realtà attuale è diversa: la dimensione comunitaria è indebolita, si viaggia da soli, in piccoli gruppi e reti con legami fragili. Chi deve gestire strutture di solidarietà lo sa benissimo.

Qual è il futuro del sindacato?

Il declino è al momento compensato da due fenomeni, a cominciare dalla presenza degli immigrati regolari. Si parla di 6-700mila iscritti, che vedono nel sindacato anche un fattore di cittadinanza. Inoltre, nel momento in cui vengono ridimensionate le rivendicazioni nelle imprese, il sindacato differenzia la propria azione, diventando specialista delle situazioni di crisi e assicurando servizi individuali. Già oggi, per esempio, i sindacati gestiscono la denuncia dei redditi di 6 milioni di italiani e svolgono funzioni di patronato

Si può fare di più?
Il modello a cui tendere è quello del sindacato del Nord Europa, vero e proprio attore del mercato del lavoro. I sindacati svolgono attività di formazione e di collocamento, presidiando l’ingresso nelle aziende.

In Italia, ci sono ancora solo dei timidi segnali.

 

di Matteo Spicuglia
da Nuovo Progetto novembre 2008


 

NUMERI

Quasi 12 milioni di iscritti (11.714.224) divisi in decine di organizzazioni, piccole o grandi.
Sono questi i numeri del sindacato in Italia: Cgil, Cisl e Uil la fanno da padrone, ma sono in crescita anche le altre confederazioni Cisal - Ugl - Confsal, senza dimenticare i sindacati autonomi o quelli che rappresentano singole professioni, mestieri o mansioni.
Grandi numeri che contrastano con il calo di fiducia registrato negli ultimi anni. Secondo alcune indagini della SWG, infatti, il 58% degli italiani esprime un giudizio negativo, determinato soprattutto dalla posizione dei giovani (18-24enni). Più benevolo l’atteggiamento degli adulti che sembrano ancora credere nel ruolo delle organizzazioni, nonostante tutto.



 

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