La foglia del Gelso

Pubblicato il 10-08-2011

di Redazione Sermig

Un monaco fra i detenuti di lingua araba del carcere di Bologna. Un ponte che fa emergere aspetti di varia umanità.

  di Ignazio De Francesco

 
Lubna, ventitré anni, appare sulla porta di un parlatorio della sezione femminile della Dozza di Bologna, uno dei carceri più grandi e sovraffollati d’Italia. Tuta sportiva, capelli stretti in un’ampia fascia per raccogliere i suoi ricci e nasconderli al tempo stesso. Lubna è una boat people, giunta a suon di euro in Sicilia con altri disperati del mare come lei, poi ospite per alcuni mesi presso una famiglia che la ricorda come una ragazza pulita, servizievole, onestissima. Infine il tentativo di trasferirsi a nord, il matrimonio in moschea con un ragazzo della sua terra e poco dopo l’arresto di entrambi per reati di droga, per i quali spero possa dimostrare, lei, la propria totale estraneità. Incontro Lubna regolarmente, da alcuni mesi, e la prendo come esempio del tipo di lavoro che sto svolgendo, a nome della Piccola Famiglia dell’Annunziata, da circa un anno nel carcere di Bologna, a fianco di un altro membro della comunità, Piero Azzoni, che per primo aveva avvertito la necessità di un contatto con i detenuti di lingua araba. 
 
La lingua araba è appunto la chiave di accesso a questi detenuti, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione straniera del carcere. Mi seggo dinanzi a loro, in incontri individuali o di piccoli gruppi, e prendo spunto da un testo che raccolgo dalle loro fonti religiose e spirituali: un insegnamento etico, ad esempio, oppure un tratto di storia. Il testo in realtà... è un pretesto, la scintilla di un dialogo a più livelli: c’è un bisogno struggente di raccontarsi, di rappresentare davanti a te la propria storia.
 
C’è poi il bisogno di riprendere contatto con quei principi profondi che danno direzione alla vita. Scherzando con loro, chiamo questi incontri “l’accademia araba del carcere”: con questi detenuti metto da parte le grane dei loro processi e dialogo di teologia, filosofia, letteratura, poesia. Stupisco delle cose che riescono a trarre fuori dal grande deposito della trasmissione orale, tratto tipico della cultura araba. Tra tanti esempi dell’accademia cito Naji, marocchino, che mi dice: “La foglia del gelso ci ricorda Dio. La mangia la mucca ed ecco latte bianchissimo; la mangia l’ape ed ecco miele splendente; la mangia il baco ed ecco seta preziosa. Da una sola foglia tante cose buone; da un solo Dio tutta la bella creazione”.
 
Lo scopo di tutto questo? Far riemergere la memoria antica dei buoni valori etici depositati nel cuore di questi musulmani dalle loro tradizioni: ad esempio la speranza, la sopportazione, la fiducia nella Provvidenza, l’attesa della ricompensa divina... E da qui gettare ponti con i valori etici che, in quanto cristiano e monaco, porto dentro; indicare punti di contatto e la possibilità concreta di quella stima reciproca, che almeno da parte nostra è dichiarata solennemente dal Concilio Vaticano II, Nostra Aetate n.3: “La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio...”. Tutto ciò poi con la semplicità e la fiducia che viene da quel Gesù che ha detto: “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 27,36) e anche “Ho altre pecore che non sono di questo ovile: anche queste io devo condurre” (Gv 10,16).
Ignazio De Francesco
 
 
 
 

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