Moratoria e dintorni

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


La contestazione del Papa all’Università La Sapienza e la campagna di Ferrara contro l’aborto chiamano entrambe in questione il principio di tolleranza.

di Paolo Girola


 

Ci sono due fatti della cronaca recente che impongono una riflessione su come viene inteso il principio di tolleranza da una parte del mondo intellettuale e giornalistico italiano. Il primo è certamente l’incredibile contestazione che ha impedito al Papa di parlare all’Università la Sapienza di Roma. Il secondo, la campagna lanciata da Giuliano Ferrara per una “moratoria” sull’aborto a livello mondiale e per una grande manifestazione nazionale che sottolinei come la stessa legge 194, quella per l’interruzione volontaria della gravidanza, sia stata disattesa nella parte che doveva, secondo lo stesso legislatore, essere la più importante: il sostegno alla maternità.
giulianoferrara.jpg L’iniziativa del direttore del Foglio ha rilanciato una riflessione che deve essere, prima ancora che di tipo legislativo, di carattere “culturale e spirituale” (come ha scritto lui stesso) per svelare le ipocrisie e chiamare le cose con il loro nome .
È una iniziativa che ha sollevato grande interesse, migliaia di lettere di sostegno al Foglio, pagine del giornale dedicate a scienziati e intellettuali di tutto il mondo che considerano l’aborto alla stregua di un omicidio legalizzato, ed ora anche l’attenzione di autorevoli esponenti del Parlamento, oltre che l’approvazione di larga parte del mondo cattolico, finora timido e impacciato (salvo qualche irriducibile movimento) nel difendere un principio universale di umanità. Anche alcuni quotidiani e servizi tv ne hanno parlato.

La battaglia è, innanzitutto, contro la banalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza in una certa mentalità corrente, soprattutto nei consultori pubblici che dovrebbero invece prevedere azioni di solidarietà a sostegno delle future mamme e contro chi, come una cultura che si definisce spesso “progressista”, ha fatto una ideologia di quella che doveva essere una soluzione estrema per alcuni drammatici casi medici.

Il valore di questa iniziativa è proprio questo, l’essere un richiamo ai principi etici fondamentali in una Europa che non ha neppure voluto nominare le sue radici cristiane e nella quale sembra prevalere un individualismo effimero e superficiale, che nulla ha a che spartire con la stessa grande tradizione liberale, fondata sì sulla affermazione dei diritti individuali ma anche su un forte senso morale della responsabilità personale. Solo la Chiesa, alcuni esponenti del mondo cattolico e ora anche alcuni intellettuali laici, talvolta definiti con un termine che vorrebbe essere spregiativo “atei devoti”, hanno alzato la voce in difesa di valori eminentemente cristiani: in definitiva, in difesa della dignità degli uomini, di tutti gli uomini indipendentemente dal loro stato di salute fisico o mentale o economico.

Come ha scritto uno dei massimi filosofi del liberalismo contemporaneo, Roger Scruton, (foto a destra) la “disputa è fra coloro che credono che dobbiamo sacrificare noi stessi per le future generazioni e coloro invece che pensano che le future generazioni possano essere sacrificate alla nostra utilità”, aggiungendo un monito: “Se il vivo si sacrifica per il non nato, la società ha un futuro, nel caso contrario il mondo volge alla fine. È il principio dell’ecologia sociale”.
Naturalmente non si deve aprire nessuna “guerra di religione” ma uno spiraglio di riflessione, perché si torni a ragionare, non solo su questo argomento, con carità e buon senso.
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Il secondo episodio conferma, a maggior ragione, la sensazione che una certa parte della cultura (e anche della politica) italiana ha un ben strano concetto del dialogo, del confronto di idee, della tolleranza, in definitiva della democrazia. Credo sia un servizio alla società quello di esercitare la libertà di espressione, che talvolta sembra negata a chi non condivide le tesi materialiste del relativismo contemporaneo, sempre per chiamare le cose con il loro nome. Un relativismo che fra la gente diventa un povera cosa: una cosa fatta di egoismo ed egocentrismo e che non riguarda soltanto l’aborto ma molti altri ambiti della vita personale e collettiva.

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Possiamo dichiarare pubblicamente, senza incorrere in scomuniche laiche, il nostro dissenso sull’aborto, la selezione genetica prenatale, i matrimoni e conseguenti adozioni da parte di coppie omosessuali, l’eutanasia (naturalmente non a favore di certi tipi di accanimento terapeutico)? alvolta in questa Europa, i cui padri fondatori sono stati politici dichiaratamente cristiani, sembra proprio di no. Molti organi di informazione hanno reagito con stizza e con articoli che sembrano non cogliere l’essenza dei problemi e parlar d’altro (la solita accusa di “criminalizzare” la donna o l’enfasi sulla morale “laica”).

Molti intellettuali hanno argomentato che La Chiesa ha già troppe occasioni di far sentire la propria voce. Ma questo che cosa ha a che vedere con l’essenza delle discussioni? È stato giusto o no impedire al Papa di palare all’Università, come un ospite indesiderato, alla stregua di un qualche criminale di guerra, un dittatore sanguinario, un terrorista? È giusto o no interrogarsi sui limiti di un atto che Tolstoj chiamava la cosa più simile all’omicidio?

Ed ecco un’ultima considerazione sulla quale molti cattolici (ma anche cristiani in generale) dovrebbero riflettere. Dire che i mass media sono uno strumento fondamentale nel formare l’opinione pubblica è una cosa ovvia. Ma questa ovvietà nasconde un aspetto più profondo della loro influenza nella società d’oggi: il fatto che sono uno strumento di formazione di una “morale pubblica”. Influenzano i valori e il costume. Non ne sono solo uno specchio, ma anche una fonte.
E il fatto che, al contrario di quanto si dice, la voce della cristianità italiana sia in realtà assai flebile è un problema per la trasmissione di un messaggio che, sì, passa per una testimonianza personale, sempre di grande importanza, ma che in una società della comunicazione deve transitare positivamente attraverso i mass media se vuole affermarsi e, direi, quasi accreditarsi nella più vasta opinione pubblica.
Si è creata una situazione che ha fatto scrivere a Ernesto Galli della Loggia (foto sotto) di “silenzio dei cattolici”. Lo ha fatto con una certa preoccupazione per il silenzio imposto a una voce importante in Italia. “I più diffusi quotidiani del Paese, le case editrici più importanti, gli spazi televisivi più ampi, vedono per lo più una larghissima prevalenza di addetti ai lavori, di collaboratori, di autori, di uomini e donne di spettacolo di intrattenimento che sono ideologicamente e culturalmente lontani dalle posizioni cristiane e cattoliche in specie” (Corriere della sera 20 dicembre 2006).
La società nella quale viviamo e che noi chiamiamo secolarizzata significa in sostanza una società in larga misura materialista, che ha fatto del benessere il fine personale e sociale per eccellenza.
Non tutti i frutti della secolarizzazione sono negativi , pensiamo al concetto di tolleranza, che era però già implicito in una lettura corretta del messaggio cristiano. È però un fatto che in Occidente la secolarizzazione ha finito per corrispondere in larga misura a una scristianizzazione (non sono mancate le colpe della stessa Chiesa).
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Senza ripercorrerne le tappe, possiamo dire che la secolarizzazione ha avuto un’impennata a partire dalla fine degli anni Sessanta, con quel movimento mondiale di idee che fu detto “sessantotto”, e di cui iniziano già le ricorrenze del “quarantennale”. Il “sessantotto” ha provocato l’irrompere sulla scena occidentale dei valori dell’individualismo più radicale di matrice anglosassone, mescolato con una ideologia confusamente anticapitalista, marxista, pacifista.

Il moto impetuoso della secolarizzazione ha travolto molte istituzioni educative, in particolari religiose, la Chiesa cattolica non meno di molte Chiese protestanti, perché ha avuto implicazioni profonde sul modo personale di porsi davanti alla vita e alla morte. La secolarizzazione produce quindi una nuova etica.
Di questo profondo sentire è permeata la società in cui viviamo: dal più piccolo paese alla grande città. Questa nuova etica, che qualcuno ha definito “l’etica del piacere” permea i grandi e i piccoli mezzi di comunicazione, penetrando così ancora più a fondo nelle coscienze.

 

 

 

 

 

 

 

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